Il pop dolceamaro di Sano tra metafore politiche e amori tossici

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Figlio dell’underground partenopeo, Sano è una delle voci più riconoscibili della nuova scena. Nel suo disco d’esordio, Opopomoz (citazione dal film d’animazione di Enzo D’Alò), scritto e prodotto insieme a Rainer Monaco e Drast, mescola stili e influenze diverse: il risultato è un pop dolceamaro, che alterna immagini tenere e momenti crudi, tra metafore politiche e relazioni imperfette. Cresciuto artisticamente nel collettivo Thru Collected, Sano – al secolo Riccardo Capone, 25 anni – porta anche nei brani il peso e l’energia di Napoli, città che è al tempo stesso motivo di pressione e motore creativo.

Tuo padre è un musicista, cosa ascoltavi da piccolo?

«Sono cresciuto immerso nella musica. A casa c’erano Stevie Wonder e Fela Kuti. Ascolti importanti, ma per me era la normalità».

Quando hai capito che volevi fare musica?

«Durante l’adolescenza pensavo di no. Disegnavo, facevo graffiti. Poi al liceo un amico registrò un pezzo in uno studio casalingo: l’ho accompagnato, l’ho visto uscire con la sua canzone e mi è scattato qualcosa. La settimana dopo ero lì anch’io».

Hai fatto diverse esperienze collettive prima della strada solista, come mai?

«Ho sempre avuto bisogno di condividere. Forse perché sono figlio unico. Il collettivo è una casa, ma arriva sempre il momento in cui senti l’urgenza di fare le cose da solo per capire chi sei».

“Opopomoz” rappresenta una trasformazione musicale per te?

«Non direi trasformazione, più che altro evoluzione. Il mio processo creativo è sempre lo stesso, l’obiettivo è fare qualcosa che possa essere compreso da tutti. Questo disco è più definito perché ho maturato mezzi cognitivi e consapevolezza di chi voglio essere e dove voglio andare».

Usi spesso metafore politiche.

«In famiglia ne abbiamo sempre parlato, e anche il mio gruppo d’amici si è sempre interessato all’attualità. Mi diverte infilare concetti importanti in canzoni che magari finiscono su TikTok».

La tua generazione però è distante dalla politica.

«Dopo Tangentopoli c’è stato un crollo. Nessuno è iscritto a un partito. È logico che ci sia disinteresse. Poi qualcuno si informa, certo, ma non è una formazione quotidiana».

Nel disco racconti relazioni imperfette, talvolta tossiche.

«Le relazioni, come le viviamo in Occidente, hanno dei bug strutturali. Mi piace scrivere canzoni che sembrano romantiche e invece sono spietate. Realiste».

La tua scrittura alterna dolcezza e crudezza.

«Sì. Mi appartiene come persona. Mi piace creare sbalzi: una frase tenera e subito un’immagine distorta. Funziona, dà impatto».

Napoli è centrale nella tua vita e nella tua musica. Come ci convivi?

«Non ci penso troppo. Se sei sia spettatore sia protagonista della città, crei senza preoccuparti di rappresentarla o rifarti a chi l’ha già raccontata. Napoli è pericolosa se ci si concentra troppo, ma anche fonte inesauribile di ispirazione. Però non vorrei mai suonarci: la città è troppo personale, troppo piena di pressioni e aspettative, preferisco lasciare spazio alla musica senza complicazioni».

Quale momento del lavoro musicale ti diverte di più?

«Scrivere e registrare. Ci sono giorni in cui parto da un concetto, riesco a chiuderlo in due o tre minuti di canzone e risentirlo il giorno dopo è molto soddisfacente».

La fragilità è un tema nel disco. Quanto è difficile mostrare emotività oggi?

«Esiste una tendenza a essere cinici piuttosto che emotivi. È difficile perché siamo bombardati da informazioni e notizie continue, e questo influenza il rapporto con la propria emotività».

Che rapporto hai con i social?

«Non sono un fan, cerco periodicamente di disintossicarmi. Però so che devo esserci per far muovere l’algoritmo».

Quali sono i tuoi obiettivi o sogni?

«Non mi pongo obiettivi giganteschi nella musica, perché il rischio è vivere di speranze o ambizioni indefinite. Mi piacerebbe scrivere canzoni per altri».

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