“Sembrava perfetto, ma era un alcolista. Così sono scappata dopo anni di abusi”

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«All’inizio sembrava un gentleman. Il ragazzo perfetto. Io ero innamoratissima. Così, dopo che mi sono laureata, l’ho seguito da Torino a Riccione. Gli abusi sono iniziati subito. Lo giustificavo. Mi sviliva così tanto che alla fine io mi ero davvero convinta di non valere niente. E più lo pensavo, più restavo inerte».


La fuga e la terapia

Parla nell’aula del tribunale di Rimini. Trattiene l’ansia. Il terrore di ricordare cosa ha vissuto. L’angoscia è rimasta. Per quello è ancora in terapia. La prima cosa che dice ai giudici prima di ripercorre l’incubo è: «Non lo sento più da quando sono scappata quella notte e ho preso il primo treno per Torino. Lui ha provato a riscrivermi. Io non gli ho mai più risposto. Continuo, ancora oggi, a provare angoscia. Sono in terapia post traumatica da stress».


A processo per maltrattamenti aggravati e lesioni

Sul banco degli imputati c’è il trentenne che questa ragazza di Torino, più giovane di lui, ha denunciato. Aveva poco più di vent’anni. Era la sua prima storia. La sua prima relazione. Maltrattamenti aggravati e lesioni personali, la contestazione dell’accusa all’imputato. È stata la prima convivenza di una ventenne che non poteva immaginare il suo futuro. Non è stata una storia d’amore. Ma, scrive il pm, una relazione con un giovane uomo alcolista che «ha perpetrato atti lesivi della sua integrità fisica e morale, così da provocare continuamente alla stessa dolore, mortificazione e costante soggezione psicologica, ingiurie e denigrazioni e percosse lesioni personali». Sei anni, la durata dell’inferno. Quattro gli accessi al pronto soccorso della ragazza, che aveva poco più di vent’anni, e che è costituita parte civile al processo, assistita dall’avvocata Alessandra Lentini.


L’inizio della relazione

Prima domanda del pubblico ministero: «Quando l’ha conosciuto?». Tira un sospiro di sollievo. Raccoglie le forze. Risponde. «Era il 2015. Facevo la ballerina, un po’ dappertutto, e anche nelle discoteche di Riccione. L’ho conosciuto in un bar. Lui viveva lì. Abbiamo iniziato una relazione a distanza. Non appena mi sono laureata a Torino, mi sono trasferita da lui. Per mantenermi facevo la cameriera in una piadineria».


I primi segnali

Inizia la convivenza. «Ricordo le prime volte in cui mi minacciava di tirarmi dei pugni. Però poi non lo faceva. Quindi, ero passata oltre. Quello che aveva fatto era rompere una finestra. Eravamo andati dal vetraio e non lo avevamo detto a nessuno. Come è successo? Una sera gli ho chiesto perché scriveva ad altre donne in chat, se stava con me. Ha lanciato il telefono, ha provato a tirarmi un pugno, poi si è fermato e ha rotto quel vetro. Era il primissimo periodo della convivenza. Era il periodo della casetta sopra alla ferrovia». Traslocano. La situazione peggiora. «Tornavo a casa e lui era nel letto dopo che aveva bevuto tanto. Mi preoccupava. Mi dicevo: tanto non mi farà mai del male, sono solo minacce. Non passerà mai ai fatti». E invece.


Violenza e manipolazione psicologica

Oltre alle aggressioni fisiche, certificate, ai calci e ai pugni, quello che questa ragazza tiene a dire ai giudici è: «Mi sviliva come persona. Sempre. In ogni modo. Mi diceva che non facevo bene le cose. Che ero una puttana perché avevo lavorato per le discoteche. Beveva tanto. Ero ingenua. Pensavo, e va beh, lui beve, è una sua difficoltà, si sistemerà. Pensavo di poterla gestire».


Il primo pugno

Il primo pugno è arrivato poco tempo dopo la finestra rotta. «Mi sono spaventata perché ho visto che non si sarebbe fermato. Sono scappata. Mi ha raggiunta sulle scale e mi ha colpita ancora sul costato. È andato via. E quando è tornato mi ha detto non lo faccio più, perdonami». La catena delle violenze si allunga. «La seconda volta è stato alla festa della scuola di tango. Ci avevano invitati alla grigliata. Gli ho detto, che bello, andiamo? E lui ha risposto: non voglio. Chissà con quanti sei andata a letto. Ci sono andata lo stesso alla festa, da sola. Mi sentivo libera quando non lo avevo a fianco. Ma a un certo punto lui si è presentato. Ubriaco. Urlava che ero una puttana». Schiaffi. Graffi in faccia. Lei scappa alla stazione di Rimini. «Non avevo soldi per il biglietto. Mi vergognavo a tornare a Torino, per essermi messa in quella situazione lì. Così sono rimasta. Ho pensato, ok, la risolviamo noi. Mi è venuto in mente di dirgli di andare da uno psicologo».


Isolamento sociale

Gli abusi proseguono. «Mi diceva che il mio lavoro non valeva niente. Più mi sviliva e più io mi sentivo dentro a quel ruolo. Ho cominciato a crederci, di non essere abbastanza, di meritarmi quello che mi faceva. Ero spaventata. Avevo paura di uscire. Non avevo più amici». La terza volta che lui l’ha mandata in ospedale è stato dopo che le ha messo le mani sul collo e le ha sbattuto la testa contro al muro. «Al pronto soccorso ho detto che ero caduta dalla sedia».


La fuga definitiva

La quarta volta l’ha atterrata. «Mi sono rannicchiata in posizione fetale. Mi ha presa a calci e pugni. Sono scappata in stazione. E questa volta ho preso il treno. Prima ho chiamato mia mamma. Le ho detto: “Aiutami, comprami un biglietto. Sto venendo da te». A Torino è andata in ospedale. «Mi hanno spiegato che se raccontavo l’origine delle lesioni sarebbe partita la denuncia. Mi hanno chiesto se ne fossi consapevole. Non ho più detto che ero caduta da una sedia».

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