Diane Kruger: “Le donne smettano di giudicarsi, non dobbiamo essere perfette”

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Una bambina piccola viene ricoverata d’urgenza, è ferita gravemente alla testa, e forse non è stato un incidente. È lo spunto inquietante della nuova serie tv Little Disasters – L’errore di una madre, thriller psicologico-familiare in sei episodi con Diane Kruger in inedita versione «mamma esaurita» dal punto di vista fisico e mentale. «Uno dei ruoli più sfidanti della mia vita: da madre sono entrata a capofitto nell’incubo di quanto di peggio può accadere ai nostri figli», racconta l’attrice tedesca, protagonista di questa serie sulle altalene emotive della maternità, tra errori, ansie, fragilità e sensi di colpa, creata da Ruth Fowler e Amanda Duke e diretta da Eva Sigurðardóttir su Paramount +.

Come si è preparata a un ruolo così delicato?
«Con la maggiore onestà possibile. Da madre riuscivo a riconoscere certe dinamiche. Non ho avuto la depressione postpartum, ma ho tante amiche che ne hanno sofferto, poi essendo stata l’ultima del mio gruppo di amiche a diventare madre ho avuto tempo di ascoltare le diverse esperienze di maternità e assistere a come cambiassero radicalmente le loro vite. Il bello di questa serie è proprio lo sguardo plurale: oltre alla mia Jess seguiamo le sue amiche Liz, Charlotte e Mel (interpretate da Jo Joyner, Shelley Conn e Emily Taaffe, ndr), siamo quattro donne che si sono conosciute in gravidanza e sono rimaste legate nel tempo. Ognuna rappresenta un modo diverso di vivere la genitorialità».

La sua Jess, madre casalinga tuttofare, si sente perduta.
«Ho provato tanta empatia per lei e per il suo tentativo di essere una madre perfetta senza riuscirci e senza riuscire neanche a chiedere aiuto. C’è qualcosa di profondo, bellissimo e vulnerabile in lei ».

È una serie che intende ribaltare la visione stereotipata della “maternità perfetta”?
«Nessuna di noi vuole essere uno stereotipo, ma spesso noi donne – io per prima – siamo i nostri peggiori nemici, perché agli occhi dei nostri figli tutte miriamo ad essere perfette, vogliamo solo il meglio per loro, siamo convinte di non aver bisogno di aiuto e riuscire a fare tutto, anche le porzioni perfette per i pranzi dei figli. Ora, ci fa bene portare avanti quest’immagine di noi? No, perché non è reale. E dobbiamo parlarne sempre di più, è importante, per far capire che chiedere aiuto è normale, non è mai un segno di debolezza. Così come ammettere di non farcela è tutto tranne che un fallimento».

Cosa sente di aver imparato soprattutto da questa serie?
«Ad avere più comprensione e grazia verso me stessa. A concedermi più spazio, ad autorizzarmi a dire: “Non ce la faccio”, o anche: “Non so cosa diavolo sto attraversando, sto solo cercando di farcela”. Spero che tante donne vedendo la serie si sentano in diritto di chiedere aiuto e smettano di giudicare come le altre si comportino, nessuno deve permettersi di dire se siamo o meno delle buone madri. Il giudizio sulle madri, da parte anche delle madri stesse, è sempre troppo severo».

Ha mai sperimentato il “lato oscuro” della maternità che la serie racconta?
«Non è mai facile diventare madri, per nessuna. È un viaggio bellissimo e terrificante al tempo stesso. Nei primi due anni di vita soprattutto comporta un cambio di vita così profondo che non importa quanto si pensi di essere preparate, nessuna lo è veramente. È un’esperienza travolgente, ti consuma, ma è anche uno dei momenti belli della vita quando ci ripensi. Ma mentre lo vivi, nella mancanza di sonno, di te stessa, nel dedicarti al 100% a una creatura che dipende solo da te, fa paura. Ecco, questo tipo di “oscurità” la conosco bene, l’ho attraversata, seppur in maniera per fortuna molto lieve».


C’è ancora un tabù da scardinare sulla maternità?
«C’è sicuramente un tabù, non è ancora facile parlare pubblicamente dei “lati oscuri” della genitorialità, non è facile neanche tra mamme dirsi che non ce la si fa, che si sta lottando, che le cose non vanno bene. A monte è difficile ammettere quando non si sta bene mentalmente, e spesso i partner non se ne ccorgono».

Se dietro la cinepresa ci fosse stato un uomo sarebbe stata una storia diversa?
«Decisamente. Trattandosi di una storia che va nel profondo della maternità è contato moltissimo che la nostra regista avesse un bambino di due mesi quando abbiamo iniziato a girare . Ci siamo sentite tutte, noi attrici, la regista e le sceneggiatrici, un gruppo con un comune interesse nel raccontare una storia che sentivamo profondamente vera, perché con diverse sfumature racconta la realtà di quello che tutte ci ritroviamo prima o poi a vivere».

Cosa si augura che il pubblico porti a casa di questa visione?
«Spero anzi tutto che si divertano, poi mi auguro che tutti si sentano “visti”, e che magari si impegnino a guardare come stanno gli altri, come vivono le loro vite, anche quelle apparentemente perfette, chiedendosi se magari hanno bisogno di aiuto».

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