E dunque questo decreto Kiev arriva, non arriva, quando arriva? Arriva, arriva, dice il ministro dei Rapporti con il Parlamento Luca Ciriani, costretto a correre ai ripari dopo l’intemerata di Matteo Salvini sulla «guerra persa» che è inutile continuare a finanziare. Il 22 o il 29 sono le date utili per chiudere la partita, e già si trema perché: cosa succede se nel frattempo Donald Trump respinge la controproposta ucraina sul piano di pace Usa, come la mettiamo se si verifica la definitiva rottura dei rapporti tra Washington e Kiev? Scenario da incubo. La Casa Bianca si alza dal tavolo, tuona contro «il dittatore senza elezioni» (ovviamente Zelensky), lancia nuovi fulmini contro l’Europa imbelle capace solo di intralciare la prospettiva di un Natale di tregua concordato con Mosca. E noi, noi italiani, che facciamo?
Salvini il guastatore guarda a quella prospettiva gongolando. Può trasformarsi nel suo momento di gloria. Se l’accordo c’è, potrà dire che le armi non servono. Se l’accordo salta, potrà esibire la controprova che Trump aveva ragione, l’Ucraina è l’ostacolo guerrafondaio, continuare a sostenerla è follia militarista. L’escalation polemica del Capitano, giurano tutti, non arriverà mai all’astensione sul decreto. «Anche quando le dichiarazioni pubbliche sono differenti – dice Ignazio La Russa – il rapporto personale con Meloni consente di trovare soluzioni». Ma il solo fatto che ci sia bisogno di tutta questa acqua sul fuoco dimostra che il fuoco esiste e preoccupa e mette a rischio un percorso che forse si è dato troppo per scontato guardando ai precedenti, che hanno sempre visto Salvini allinearsi all’ultimo momento alla linea di Palazzo Chigi.
Sì, il controcanto del leader leghista è diventato un problema, soprattutto perché mentre lui abbraccia la linea Maga in purezza – compresa la tesi sulla Russia vittoriosa, gli elogi a Vladimir Putin, le invettive contro i leader europei deboli – in questa direzione FdI non può inseguirlo come ha fatto per anni sui temi minori dell’immigrazione, della legittima difesa, del prima gli italiani, quisquilie a paragone del colossale rivolgimento di relazioni in corso nel vecchio Occidente. Qui è in gioco il sistema di amicizie che Meloni ha messo insieme in Europa, il ruolo da pontiere che si è autoassegnata, la credibilità complessiva dei suoi ministri ai tavoli della crisi, perché Salvini mica è un passante: è il vicepremier, e all’estero questi ruoli hanno un senso, hai voglia a dire «sono le solite bizze di un incontrollabile».
Il sabotaggio del Capitano, alla fine, non ha bisogno nemmeno di atti politici conseguenti. Bastano le parole per ampliare i sospetti delle cancellerie europee, già sotto choc per l’appendice alla nuova Strategia di difesa americana, quella che piazza l’Italia tra i Paesi su cui puntare per rompere la solidarietà continentale e paralizzare l’Unione. In altri tempi, altri governi, altri schemi senza il mito della longevità che oggi si coltiva, sarebbero già in corso operazioni per dividere la Lega, far fuori i salviniani doc dal governo, sostituirli con gruppi parlamentari di nuovo conio in nome dell’interesse nazionale. Ai nostri giorni pure quella è strada chiusa, Salvini lo sa e se ne approfitta. Dopo le batoste prese alle regionali, il fallimento dell’operazione Vannacci, dopo la fine del sogno di inaugurare il suo amato Ponte entro l’anno, il risveglio Maga è la sua riscossa.
Per paradosso l’assicurazione sulla vita di Giorgia Meloni arriva dall’altro guastatore, Giuseppe Conte: senza di lui l’opposizione l’avrebbe già inchiodata su qualche mozione europeista cercando pure l’appoggio di Forza Italia, e per la prima volta si sarebbe ballato in Parlamento. E invece Great Giuseppi tiene intrappolato il campo progressista nell’impossibilità di dire e fare e pure contestare: per ogni Romano Prodi che accusa il centrodestra di essere uno e trino – Meloni con Trump, Salvini con Putin, Tajani con von der Leyen – c’è uno di destra che può ribaltare e contrattaccare: la sinistra cos’ha di diverso? Anche lì è lo stesso, con la differenza che loro sono secoli che cercano un accordo e non lo trovano mentre noi finora ce l’abbiamo fatta.
E dunque il decreto Kiev arriverà. Qualche clausola pacifista convincerà il Carroccio. La maggioranza dovrà scontare il notevole peso di un dissidio permanente sulla politica estera, emerso dopo tre anni di unità di facciata. Però si potrà ancora dire agli elettori, agli amici europei, alle diplomazie: ringraziate che ci siamo noi, con quegli altri sarebbe pure peggio.
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