Francesca d’Aloja In Uganda ci si va principalmente per vedere i gorilla. E infatti a dare il benvenuto ai passeggeri appena sbarcati dall’aereo c’è un enorme scimmione in gesso dall’espressione sconsolata. Chissà se i turisti che lasciano velocemente l’aeroporto di Entebbe per raggiungere le loro mete ricordano gli avvenimenti che resero famoso questo piccolo scalo dell’Africa orientale mezzo secolo fa. “Operazione Thunderbolt” venne denominato lo stupefacente blitz compiuto nel 1976 da un commando israeliano capitanato da Yonatan Netanyahu (fratello di Bibi, morto durante l’azione) per liberare i 105 passeggeri di un volo decollato da Tel Aviv e dirottato in Uganda da un gruppo di terroristi palestinesi. A testimonianza della vicenda, al margine delle piste, restano gli scheletri dei Mig della flotta aerea ugandese dati alle fiamme dagli israeliani per rappresaglia contro l’allora dittatore Idi Amin Dada, ritenuto complice dei palestinesi.
Noi siamo qui per ragioni che poco hanno a che fare con il turismo. Proveremo a raccontare gli effetti dei tagli agli aiuti umanitari (non ne parla mai nessuno), e che provocheranno vittime più di qualsiasi guerra in corso.
Edoardo Albinati È singolare il destino di alcuni paesi africani: se sono pacifici e accoglienti nei confronti di chi fugge dai paesi confinanti (sempre in guerra), a qualcuno ogni tanto viene la bella pensata di spedirci i propri ospiti indesiderati. Quando era premier, Boris Johnson voleva deportare gli immigrati clandestini in Ruanda; e secondo uno dei folli piani per svuotare la striscia di Gaza dai suoi abitanti, l’Uganda avrebbe dovuto prendersene un bel po’. Oggi nel paese ci sono quasi due milioni di rifugiati, metà dei quali proveniente dal Sud Sudan in fiamme, gli altri perlopiù dalla Repubblica Democratica del Congo (DRC, la sigla con cui in fretta si snocciolano i numeri degli arrivi), vale a dire ben duecentomila in più che nel 2024. Di loro principalmente si prende cura l’Alto Commissariato ONU per i Rifugiati, l’UNHCR.
Francesca L’indomani del nostro arrivo lasciamo Kampala, per raggiungere il settlement Kyaka II, circa 250 km a ovest dalla capitale. Una distanza che copriremo in oltre sei ore di automobile lungo strade sterrate, attraverso villaggi tristemente uguali e prospettive di piantagioni di banani e foreste di bambù alternati a eucalipti dai tronchi affusolati. Sfilze di bottegucce impolverate dalla terra color ruggine sollevata dai mezzi in transito, perlopiù camion e motociclette sgangherate con almeno tre passeggeri in sella. Come sempre mi stupisco dell’impareggiabile capacità di accrocco degli africani, abili nel tirar su improbabili costruzioni con materiali di recupero talvolta ingentilite dal tocco naïf di qualche spennellata, una scritta, un disegno, un fiore. Ripetitiva anche la merce esposta: banane, tuberi e cocomeri insieme a una impressionante offerta di pesanti letti in legno, presumibile prodotto di punta del commercio locale, esposti sul ciglio della strada accanto a pile di materassi in lattice, come un assurdo dormitorio all’aperto.
Edoardo Gli ugandesi sono campioni mondiali di trasporto su due ruote: ho visto un motociclista che reggeva in verticale un palo lungo almeno cinque metri, uno sepolto in mezzo a otto materassi, e altre sculture semoventi dove si contavano fino a dodici taniche o dieci caschi di banane, e persino un portoncino di ferro di traverso sul serbatoio.
Francesca I manifesti elettorali per le prossime presidenziali sono appesi ovunque. Dai pali della luce ai rami degli alberi penzolano i faccioni inutilmente sorridenti dei candidati, sovrastati per numero e dimensioni dai giganteschi poster dell’anziano Yowery Museveni, “The President With The Hat” (non si separa mai dal suo cappello giallo a larghe falde), al potere dal 1986 e intenzionato a non mollare, nonostante l’età.
Edoardo Un giornale evidentemente filogovernativo (ma ne esistono, mi chiedo, che non lo siano?) esalta l’arte di Museveni di lavorare coi suoi oppositori politici (o lavorarseli?), per esempio, “perdonandoli”. Cioè, dopo che si son fatti qualche anno di galera, lui li libera e li associa al regime, assegnandogli posti di potere, ministeri, posizioni chiave nella nomenclatura. E così si garantisce una continuità di governo che ormai dura da quarant’anni. Il sistema pare funzioni. Il giornale la chiama “riconciliazione”. Ma c’è libertà di stampa, e libertà in generale?, domando a un addetto ai lavori. La sua risposta è vaga quanto eloquente: «Well… yes and no».
Francesca L’insediamento Kyaka I è chiuso da anni: vi soggiornavano i ruandesi fuggiti dalla guerra civile e dal genocidio degli anni ’90, costato tra 500.000 e un milione di morti. A Kyaka II, quel che vediamo non è un’infinita distesa di tende appiccicate una all’altra. Ai rifugiati viene infatti assegnato dal governo un lembo di terra da coltivare e i materiali necessari per costruirsi autonomamente delle casette le cui dimensioni dipendono dal numero di familiari (max 30 mq). Non immaginatevi però cemento e mattoni, qui le abitazioni sono fatte perlopiù di fango, fragili tetti di paglia, e assenza di pavimentazione e servizi igienici. Le dimensioni sono quelle di una rimessa per gli attrezzi, ma per chi fugge da una guerra e ha perso tutto, quel rifugio e soprattutto questo paese, la disponibile Uganda, rappresentano la salvezza. Tutt’intorno alle casette spuntano piante di fagioli e mais, qualche banano, e becchettano i polli.
La superficie dell’insediamento è di 80 chilometri quadrati, con 26 villaggi nei quali vivono circa 136. 000 persone, in maggioranza rifugiati con una piccola percentuale di richiedenti asilo. L’ 80 per cento sono donne e bambini provenienti per la quasi totalità dalla Repubblica democratica del Congo, devastata da decenni di conflitti. I sudanesi invece entrano dal confine settentrionale: e sono oramai più di un milione. In Uganda ricevono documenti di identità che attestano lo statuto di rifugiati e viene loro concessa libertà di movimento in tutto il paese, senza restrizioni, con gli stessi diritti di qualsiasi cittadino ugandese, compreso quello di frequentare le scuole locali, e forse solo da questo dettaglio si può capire come il concetto di accoglienza (ma sarebbe forse più corretto utilizzare il termine brotherhood, fratellanza), sia qui esplicitato alla lettera. E di nuovo, come accadde qualche anno fa in Niger, mi ritrovo a considerare il paradosso secondo il quale più un paese è ricco e meno è disposto ad accogliere, meno dispone di mezzi e più si dimostra, diciamo così, generoso.

Edoardo L’ufficio dell’UNHCR di Kyaka II è capitanato da una keniota esplosiva, Esther, di formazione avvocato, che ha visto il suo staff ridursi del 30% negli ultimi mesi, ma, dice, «inutile fare la lagna, dobbiamo lavorare il doppio senza lamentarci ma soprattutto senza ucciderci… perché se ci uccidiamo, poi non potremo lavorare!», una conclusione tanto ovvia quanto saggia, il burn-out è in agguato in queste operazioni dove si spremono fino all’ultima goccia le risorse materiali, spirituali, emotive.
Il sovrappopolamento della zona ha costretto il governo ugandese a restringere il pezzetto di terra concesso ai rifugiati: prima era 50 metri per 50, ora 30 per 30, e si teme che i metri prima o poi si ridurranno a piedi.
Francesca Incontriamo il responsabile governativo, Prime Minister Officer, che ci illustra, sussurrando, dati, percentuali e soprattutto gli effetti nefasti dei recenti tagli agli aiuti da parte degli Stati Uniti (per tutta la durata del nostro soggiorno faremo un notevole sforzo di attenzione per decifrare ciò che ci verrà detto in un inglese appena comprensibile pronunciato con un filo di voce. Da queste parti tutti sussurrano, bisbigliano). Conclude dicendo: «Capirete meglio con i vostri occhi».
La Sweswe Primary School è situata su un vasto, arido campo di terra. Gli edifici, rettangolari casermoni con molte finestre prive di infissi, ospitano un numero impressionante di bambini. Le classi dovrebbero accogliere al massimo cinquantatré alunni, invece ne contengono più di duecento ciascuna, per carenza di insegnanti. Bambini dai cinque agli otto anni stanno stretti uno accanto all’altro, ne contiamo sei per banco. Sarebbe una bellissima aula dove poter studiare, con le alte capriate in legno e le pareti gialle ricoperte di disegni, ma riesce difficile ipotizzare la possibilità di apprendimento in queste condizioni nonostante l’impegno eroico dell’unico maestro, concentrato più che altro a mantenere l’ordine (anche se salta agli occhi la disciplina e la quiete di questi bambini, una caratteristica che li distingue in maniera esemplare e che noterò ovunque: nelle strade, all’interno delle loro abitazioni, in braccio alle loro madri. Non urlano, non piangono, non fanno capricci). Ci accolgono agitando le manine e cantano in coro: «Flowers, flowers for you!».
Edoardo La paga del maestro si aggira sui 110 dollari al mese. Quelli che qui insegnano ai sordomuti sono a loro volta sordomuti. Purtroppo dopo la riduzione dei fondi, la scuola non può più permettersi di pagare insegnanti di sostegno, e i bambini con varie disabilità, fisiche o mentali, qui sono un centinaio. Ne incontriamo una mezza dozzina per chiacchierare un po’ all’ombra di una magnolia, durante la ricreazione, e a parte un ragazzo senza gambe in sedia a rotelle, degli altri non capiamo a prima vista a cosa si deve il loro essere umpaired, non alla pari con gli altri. Di altri invece che girellano barcollando in ricreazione sono evidenti gli handicap. Tutti all’unanimità desiderano continuare gli studi, le ragazzine da grandi vorrebbero fare le infermiere. Sussurrano, appena percettibili, timidissime, e dallo sguardo fisso nel vuoto di una di loro, dal timbro atono della sua voce, ricavo una frettolosa e mi auguro errata diagnosi di autismo.
Francesca Lascio la scuola con uno spirito tutto sommato sollevato, quel che ho visto fin qui, pur con tutte le difficoltà evidenti, emana un’energia positiva, sarà perché la forza dei bambini è contagiosa, ma insomma, per un momento mi è sembrato che le cose potessero girare per il giusto verso. Mi è bastato poco per rimangiarmi tutto.


Janine ha 33 anni ed è bellissima. Da bambina ha visto morire suo padre, ucciso con un colpo alla testa dai ribelli, i gruppi paramilitari responsabili di esecuzioni sommarie, stupri e reclutamento forzato di minori. Per il trauma, la madre, incinta, fugge lasciandola in affidamento alla nonna. A 17 anni Janine viene rapita e violentata andando incontro a un destino comune a una moltitudine di ragazze congolesi, senza dubbio le più colpite, insieme ai loro bambini, dalla violenza. Basti pensare che il 70 per cento delle donne che arrivano qui ne sono state vittime.
Edoardo L’uomo che l’ha stuprata è poi diventato suo marito, inutile dire quanto brutale, e lei racconta tutte le volte che ha minacciato di strangolarla o di tagliarle la testa col machete. Poi quello è sparito e si è risposato con un’altra, ma lei, in fondo, ne sembra sollevata. L’uomo non viene mai a trovare i bambini, i suoi figli, d’altronde è meglio così. Janine ne aveva sei, uno però le è morto, ed è sepolto qui accanto, tra le piante di mais e di fagioli. Dice che è stato avvelenato da qualcuno: vomitava cibo non cucinato da lei. Della medicina ufficiale molti congolesi non si fidano, preferiscono le cure tradizionali, i rituali magici. Mentre Janine parla osservo delle magre gallinelle legate per una zampa ai pali della tenda, affinché non fuggano. Raspano la terra con la zampa libera.
Francesca Un destino di violenza anche per Diana, ventuno anni, che incontriamo poco dopo. Ci aspetta di fronte alla sua casetta, ottenuta grazie a un partner di UNHCR, l’associazione ADRA che si occupa di fornire assistenza a persone “with special needs”. Tiene in braccio un bimbetto di un anno dal quale non si staccherà mai durante il nostro incontro. Condanna e salvezza della sua vita, il piccolo è frutto di uno stupro subito da Diana poco dopo il suo arrivo a Kyaka, quando credeva di essersi messa in salvo da questo genere di soprusi. Già a sedici anni, durante la fuga dal suo paese, era stata abusata. I suoi occhi, ancora pieni di terrore, sono più eloquenti delle parole che ascolteremo. Le chiedo se adesso, finalmente, ritiene di sentirsi al sicuro e quali sono, se ne ha, le sue aspettative per il futuro. Risponde che sì, si sente al sicuro (anche se immaginarla sola, con un bambino, in questa minuscola casetta senza elettricità, mette i brividi), e che spera di poter riprendere gli studi e guadagnare a sufficienza per mantenere suo figlio. Ha seguito dei corsi professionali, rudimenti per un possibile futuro: ora, grazie ad ALIGHT (altro partner UNHCR) ha imparato a cucire e impastare il pane. Dice di essere ottimista nonostante i suoi occhi esprimano una tristezza totale, invincibile. «Vuoi restare qui o pensi di tornare un giorno nel tuo paese?». Fa sì con la testa e un no deciso riguardo alla seconda domanda. In Congo non ha più nessuno, la sua famiglia è stata sterminata e il solo fratello sopravvissuto è disperso. Mentre parla accarezza i piedini di suo figlio. Rimango atterrita di fronte a questo amore incondizionato capace di cancellare le circostanze che hanno dato vita al suo bambino, un atteggiamento che avevo riconosciuto anche in Niger, parlando con alcune ragazze appena liberate dalle carceri libiche, anch’esse abbracciate a bambini nati dalla violenza. È una grandezza che mi sfugge e che, con un azzardo di cui mi pento, cerco di approfondire chiedendole come si fa ad amare in quel modo così puro. Diana comincia a piangere e io mi sento un’idiota. Fra me e lei c’è un abisso sul quale non sarò mai capace di affacciarmi, e ancora una volta, dopo tanti viaggi simili a questo, provo quella strisciante sensazione di colpevolezza per aver avuto la sorte di nascere in luoghi che ti consentono, senza il minimo ritegno, di lamentarti per un cappuccino non sufficientemente caldo o per la fila all’ufficio postale. Quel groppo in gola che l’operatore umanitario, così come un medico di fronte al malato, impara a inghiottire per non soffocare, io non so ancora superarlo. Prima di congedarci Diana ci invita a entrare nella sua casa: all’interno di quegli otto metri quadri non c’è nulla oltre un pagliericcio su cui dormire. Nulla di più.


Mentre ci avviamo alla macchina, il nostro referente dell’UNHCR, Frank Wasilimbi, che ci accompagnerà per tutto il viaggio, vedendomi con gli occhi pieni di lacrime commenta, con la mesta consapevolezza di chi ha a che fare con questo tutti i giorni: «She is just one of a thousand», è solo una di migliaia.
Edoardo: Mentre Francesca parlava con la ragazza, e lei piangeva, e piangeva pure Francesca, io mi annotavo dettagli secondari. Diana aveva ai piedi ciabatte di almeno tre taglie più grandi; l’aria era piena di zanzare; la vicina di casa spaccava la legna con un’ascia dal manico lungo un metro; Diana si mordeva le labbra per controllarsi, mentre raccontava che il sole non era ancora sorto, e per questo non ha potuto riconoscere il suo stupratore; il canto fastidioso di un gallo lì vicino copriva parte della conversazione; alcuni bambini tra le case palleggiavano, in mancanza di meglio, con un sacchetto di plastica nera. Il vento certo non li aiutava. Nelle foto di congedo, sulla porta di casa, Diana ora finalmente sorride, Francesca no, è troppo scossa.
Francesca: La breve pausa pranzo, nel compound UNHCR, si svolge di fronte a un televisore con le immagini dell’imminente liberazione degli ostaggi israeliani. I toni trionfalistici di Trump e Netanyahu accompagnano i nostri bocconi amari. Molti uffici sono vuoti, l’agenzia quest’anno ha ricevuto sì e no la metà dei finanziamenti dell’anno scorso.
Edoardo: Alcune delle piccole agenzie o imprese che visitiamo sono iniziative dei rifugiati stessi. Una di queste, nel nome della sostenibilità, l’ha fondata l’ingegnoso Solomon, che si vanta di essere riuscito a entrare nell’Università di Makerere dove i posti erano tre per sessanta candidati. La sua start-up ricicla l’immondizia e sforna cilindretti neri (“brickets”) da utilizzare al posto del carbone, che vengono impacchettati in sacchi da 5 a 50 chili. Sul prototipo di fornello da campo di sua invenzione soffia una ventola riciclata dal rottame di un pc, a sua volta collegata a una batteria. Da buon imprenditore (ha già sei persone che lavorano per lui) è impegnato in uno studio di “beautification” (!) del suo articolo, che, in effetti, così come lo vediamo, è ancora un simpatico ma poco attraente accrocco. «Let the product sells itself!», lascia che il prodotto si venda da solo. Solomon ha anche realizzato, in colori vivaci, i primi cassonetti per la differenziata, il problema resta come raccoglierla non avendo un camion…
Presso un’altra agenzia, RESDA, stanno costruendo una serra e degli interessanti “Tower Garden”, cioè orti cilindrici che si sviluppano in altezza, e dalle cui pareti di juta sbucano lateralmente ciuffi di verdure. Usano come fertilizzanti sterco di vacca, carbone e bucce di banana. Forniscono gli utensili necessari a piccole coltivazioni, di cavolo, spinaci, carote, cipolle, melanzane. Nel cortile sosta un gruppetto di ragazze con addosso una maglietta rosa, le quali stanno aspettando il diploma e un premio per aver seguito un corso di sartoria. Francesca viene invitata a effettuare la premiazione, in quanto ospite speciale: peccato che un istante prima sia inciampata finendo dritta contro un muro. Tuttavia non si sottrae al compito e, sanguinante, consegna alla prima diplomata una macchina da cucire Singer vecchio modello, tra gli applausi.


Francesca Temo di essermi rotta un dito, contro quel muro, e finisco nel presidio medico di Kyaka per farmi visitare da Emmanuel, il dottore che lo dirige. Di fare una lastra non se ne parla, Emmanuel va in farmacia poi torna con un tubetto di balsamo di tigre (!) per sgonfiare l’ematoma. Non ha altro da offrire, i medicinali veri e propri scarseggiano. Gli chiedo allora se possiamo fare un giro per il piccolo ospedale. Anche qui, il personale è stato dimezzato per carenza di fondi. Medici, ostetriche e infermieri non superano le cinquanta unità. La prima emergenza sanitaria è la malaria, ma vista la maggioranza femminile, il reparto maternità è il più affollato. Cammino fra i letti occupati da ragazze giovanissime in attesa di partorire. Nel reparto a fianco le donne che hanno fatto ricorso al cesareo mi fanno un cenno di saluto con espressioni doloranti. Qui nascono 400 bambini al mese, le ostetriche sono dodici, e di infermiere ne conto solo due.
Edoardo Emmanuel ha studiato medicina in Belgio, ad Anversa. È balbuziente in modo grave e i suoi sforzi per illustrarci le attività del centro, già commoventi per il loro contenuto (posso dirlo? sforzi eroici), fanno venire agli occhi lacrime di pena, rabbia, e involontaria, irresistibile comicità. Dev’essere enorme la frustrazione di un medico quando il suo paziente si aggrava senza che a lui sia stato possibile curarlo, cioè semplicemente dargli il farmaco necessario, del valore di qualche dollaro. «Vengono qui, chiedono aiuto, e tu non hai quasi nulla da offrirgli». Restare fedeli al giuramento di Ippocrate, ad ogni costo.
L’UNHCR ha il compito di coordinare questi sforzi compiuti da una miriade di agenzie piccole e grandi, locali e internazionali. Sono più di quaranta, solo a Kyaka, e tutte indistintamente patiscono i tagli finanziari alle loro attività. In queste lunghe giornate ugandesi verremo affiancati da infaticabili ragazzi (e soprattutto ragazze, le quali normalmente parlano un inglese impeccabile, al contrario dei loro colleghi maschi il cui accento spesso stentiamo a decifrare) con le pettorine istoriate da sigle che sarebbe giusto qui illustrare per esteso, ma non c’è tempo, e spazio, e nemmeno voglia. Eccone un nudo e incompleto elenco: Finn Church Aid, Alight, TPO, RESDA, Live in Green, GIVE, Medical Team International.
Francesca All’esterno, una fila ordinata di donne in attesa della somministrazione dell’antitetanica. Siringhe e fialette sono poggiate su un tavolo da biliardo in disuso.
Edoardo Da Kyaka, in due ore di sterrato in parte fangoso + due ore di asfalto perlopiù decente (il nostro autista, Samuel, guida come un campione di videogame, schivando ostacoli in scioltezza) si arriva a Mbarara, attraversando monotoni villaggi con le solite merci esposte lungo la strada: oltre alle cibarie, gli onnipresenti letti matrimoniali, portoncini e cancelli di ferro di tutte le fogge, mazzi di taniche, e artistiche piramidi di piastrelle e mattoncini. Il gusto decorativo applicato a povere cose, lo struggente abbellimento del miserabile: e nel caos complessivo, esempi di squisito ordine formale come quello cui vengono impilate le cataste della legna. Il mezzo più diffuso sono le motociclette, ma la più parte non circola, e serve piuttosto a starci seduti sopra o sdraiati, a schiacciare pisolini. E poi, delle stupefacenti biciclette tutte di legno, comprese le ruote, e prive di pedali, che occorre infatti spingere a mano, e ai cui lati sono appesi, a quintali, sezioni di tronchi d’albero o sacchi di patate.
Francesca Tutt’intorno papiri, magnolie, banani e fiori fosforescenti. E lungo la strada, bottegucce con insegne grandiose: Success, Versace, Deluxe Pub, Eden, Victory. E ancora manifesti elettorali, appiccicati sugli alberi, sulle porte delle case, sui serbatoi delle moto.
Edoardo Nel distretto di Mbarara dall’inizio dell’anno sono arrivati 50.000 rifugiati, o meglio questa è la cifra di quelli che si sono registrati presso l’UNHCR, ma potrebbero essere forse 20.000 in più, e quello di Nakivale (a circa un’ora da Mbarara) è solo uno dei 13 insediamenti in Uganda, il più antico, risale al 1958. A oggi ci vivono 270.000 rifugiati, di cui tre quarti sono donne e bambini.
Nel frattempo, dalla Repubblica Democratica del Congo piovono, di ora in ora, le agenzie con le notizie di scontri e bombardamenti, che lasciano immaginare nuovi flussi di gente in fuga. Si calcola a spanne quanto tempo ci vorrà perché arrivino qui. Le sigle dei gruppi paramilitari coinvolti: M23, ADF, FARDC, ma ce ne sono altri cento in Congo, armati fino ai denti.
Visitiamo il Kabazana Reception Center, oggi la situazione è tranquilla: nelle ultime due settimane sono arrivate “solo” 315 persone. Ma tra il marzo e il maggio scorso c’è stato il picco, ne arrivarono ben 40.000, di cui 8.000 in un giorno solo!
Francesca Brigitte è arrivata il maggio scorso con i suoi otto bambini, l’ultimo dei quali le sta abbarbicato al collo mentre mi racconta la sua storia. Presto se ne aggiungerà un altro, è incinta di cinque mesi ma questa volta il padre non sa chi sia. I primi figli li ha avuti da un uomo che era stata costretta a sposare, poi lui è morto ed è rimasta sola. Il copione è sempre lo stesso, le donne che ho incontrato, ma anche quelle che non ho conosciuto, sono accomunate dalla sistematica privazione dei diritti indispensabili, primo fra tutti quello di essere amate. Quel sentimento, di cui mai sono oggetto, lo riversano sui figli, unica possibile espressione d’amore.
Edoardo Mi presentano una dozzina di rifugiati provenienti dal Transit Center presso il confine. Tranne uno, sono tutti congolesi.
Leticia ha vent’anni, è elegantissima in un abito plissettato nero, a dispetto della polvere che lo ricopre dalla vita in giù: scoppia a ridere quando le spiego l’etimologia latina del suo nome, che il suo aperto sorriso appunto conferma. Eppure la sua vicenda personale non è allegra neanche un po’: gli assalitori sono piombati in casa sua nel cuore della notte (“thiefs”, ladri, traduce l’interprete, ma oramai è chiaro che una netta distinzione tra ribelli, miliziani, predoni, soldati o classiche bande criminali è quasi impossibile, almeno nel racconto delle vittime), «ci hanno preso tutto – dice – hanno violentato mia madre…» (e qui trattengo il fiato figurandomi la scena). Dopodiché nel buio i membri della famiglia sono scappati in tutte le direzioni e il nucleo si è disperso: Leticia assieme a cinque tra fratelli e sorelle da una parte, la madre abusata, insieme a due bambini, da un’altra, il padre con un figlio chissà dove. Di questi ultimi la ragazza non ha più saputo nulla, mentre con la madre si è ricongiunta, ora anche lei in salvo nel Reception Center. Al suo paese Leticia lavorava come sarta: «Se solo avessi una macchina da cucire, riprenderei». Magari una delle Singer d’annata che abbiamo visto distribuire in premio a Kyaka.
A una di queste donne gli uomini armati hanno ordinato di avere un rapporto con suo fratello. Un altro rifugiato solleva il pantalone e indica lo squarcio lungo un palmo, coi bordi divaricati, cicatrizzati male, di un colpo di machete. Ma perché, che aveva fatto? Niente, non aveva più soldi da dargli. Quindi hanno abusato di sua moglie. Mukize aveva nove figli, gliene rimangono sette: il marito e i due figli più grandi li hanno picchiati e portati via, e lei non ne ha saputo più nulla.
A Robert Kamuntu, di Bukavu, hanno ammazzato il padre. I familiari (tra cui una nonna ottantenne) sono fuggiti in barca attraversando il lago Kivu fino a Goma, dopodiché il gruppetto ha guadagnato avventurosamente il confine con l’Uganda a bordo di cinque moto, ma per pagarsi il transfer hanno finito i soldi…
Lo schema è sempre quello: il buio, total black, della notte africana, l’irruzione nel villaggio di bande armate, uomini mai visti prima – dopodiché minacce, botte con il calcio dei fucili, rapina, stupri, esecuzioni a freddo, rapimenti… quindi la fuga dei superstiti verso l’Uganda.
Uno di loro sembra ansioso, smanioso di parlarmi: è uno studente di legge di Bukavu, il cui nome, Patient, suona programmatico. Gli assalitori li chiama “banditi”, erano armati fino ai denti coi fucili che i ribelli in fuga avevano abbandonato. Non riuscendo a penetrare nel compound, per rabbia hanno sparato a raffica attraverso il muro di cinta, uccidendo due bambini. Poi, a parte, in francese, Patient mi sussurra che potrebbe aggiungere «dettagli significativi» alla sua storia che ora evidentemente non se la sente di raccontare davanti agli altri. Me li scriverà via email. Si lamenta che anche all’interno del campo c’è qualcuno che taglieggia gli altri rifugiati. Resto impressionato dal suo eloquio, in un francese quasi accademico.
Comunque sia, nessuno si sogna di tornare indietro. Dunque, se questa gente accetta condizioni di esistenza così grame, vuol dire che ciò da cui è fuggita era davvero l’inferno. Nei loro racconti stiamo trovando purtroppo molte conferme.
«Vogliamo vivere!», diceva quel vecchio film di Frank Capra.


Francesca: “Unaccompanied Minors” è la formula intraducibile che indica bambini e ragazzini senza genitori: o perché orfani, o perché abbandonati, o perché i genitori se li sono persi per strada fuggendo. Pare che in tutta l’Uganda ce ne siano addirittura cinquantamila. Bambini soli? Ecco, li chiamerò così. Ne incontriamo una trentina, a occhio tra i cinque e i quindici anni. Raccontano le loro storie come filastrocche, seduti davanti a noi, quasi tutti dondolando i piedi tra le gambe della sedia. Non facciamo che scambiarci sorrisi d’intesa. Su una parete alle loro spalle, spicca un foglio bianco con su scritto, a mano: “Choose optimism”, scegli l’ottimismo. Se gli chiedi cosa vogliono, cosa desiderano per il loro futuro, quasi tutti rispondono: studiare. «Education is life saving as well as food», l’educazione è come il cibo, ti salva la vita.
In Uganda è stata approntata una “Foster Bank”, ovvero un archivio di potenziali genitori affidatari selezionati in base a requisiti di idoneità, il primo dei quali è: “compassion”. Ed è proprio questa l’inclinazione dimostrata dai genitori che ora incontriamo: la capacità di immedesimarsi nel dolore di bambini che hanno perso tutto e l’istintivo desiderio di condividere il calore di una famiglia, nonostante le ristrettezze economiche e le oggettive difficoltà di integrazione in nuclei familiari già numerosi. Alla domanda sul perché abbia deciso di adottare dei bambini, uno degli uomini presenti, già padre di quattro figli, dal viso virile e intelligente, risponde: «Love». Ne ha adottati quattro, e se avesse più soldi, ci dice, ne accoglierebbe ancora. È una lezione di umanità quella che ci regalano gli uomini e le donne seduti di fronte a noi. Persone che non hanno avuto dubbi sulla scelta da prendere, anche quando si trattava di aggiungere tre, quattro posti a tavola.
Fra loro c’è un ragazzone con i dreadlocks che ricorda Jean-Michel Basquiat. Indossa felpa e jeans e stringe una cartella di documenti da cui spuntano le classiche foto tessera. Credendolo un giovane papà gli chiedo quanti bambini ha accolto nella sua famiglia e mi risponde di essere venuto in rappresentanza di sua madre, affidataria di quattro bambini che lui stesso ha segnalato dopo averli visti, da soli. Lui, cresciuto senza un padre, si è identificato nella loro solitudine: «Non potevo abbandonarli». Pare che qui sia molto frequente il caso di uomini che, semplicemente, mollano la famiglia, specie se numerosa e con figli piccoli, e non si fanno più vedere né sentire: alla prole ci penserà la madre rimasta sola.
Edoardo: Ecco, l’incontro con i foster parents illustra perfettamente come la logica dell’altruismo solidale (e in realtà di qualsiasi legame sociale) si regga su un’ipotesi di reciprocità: io soccorro oggi qualcuno perché un giorno potrei aver bisogno io che qualcuno soccorra me. Semplicissimo. «Mi prendo cura di figli senza genitori, così se un domani tocca a me, di morire, qualcuno baderà ai miei figli», dice una donna in realtà ancora molto giovane, con una stupefacente eppure pratica preveggenza.
Francesca: Sparse qua e là per la piana, contrappuntate da termitai alti un metro e mezzo, le baracche dei “new arrivals” (i “nuovi giunti”, si direbbe nel gergo della galera) non sono molto più grandi del box di un garage. Alcune dalle pareti di fango, altre di mattoncini, e ricoperte a mo’ di tetto da teli plasticati dell’UNHCR e di altre agenzie. La parola più volte evocata qui è challenge, e forse non ne esiste una più appropriata. Tutto ciò che riguarda la vita di questa gente è un challenge, una sfida. Come quella che affronta Francine, che dorme da sette mesi sotto una tenda di fortuna insieme ai suoi sei bambini, in attesa di una piccola abitazione che un carpentiere le sta costruendo a pagamento. Il suo provvisorio riparo di teli di plastica sarà alto un metro e mezzo e lungo meno di tre. La notte, la sola luce di cui dispone è quella del suo cellulare. La sfida più grande qui è sapersi adattare al rifornimento bisettimanale di acqua, da spartire con tutti gli altri abitanti, ma anche la capacità di dimenticare le atrocità subite: «Non penso mai al passato, non potrei andare avanti altrimenti». Intorno alla tenda ha piantato un po’ di mais.
Edoardo: Ora a parlare è Alice, età indefinibile, e decidiamo di non chiedergliela. Sarà, alla fine, forse l’unica delle persone da noi incontrate che un po’ rimpiange la vita che ha lasciato. Mentre parla si stringe in grembo una borsetta screpolata simil-Gucci, alla maniera di una signora in autobus, chiaramente l’oggetto più prezioso di sua proprietà. Pudicamente si tira giù lo scialle a coprire ginocchia e gambe. La sua casa in Congo aveva quattro stanze ben pavimentate, non come qua che sotto i piedi hai la terra, fuori e dentro casa. Terra, terra ovunque, rossa, polverosa, pronta a tramutarsi in fango alla prima pioggia. Le mancano appunto la sua casa, gli amici, le conoscenze. Ma a parte questo rimpianto quasi borghese? Lo scenario del suo racconto si fa improvvisamente cupo. I soliti ignoti in patria l’hanno rapita e portata nel bush. Inutile dirlo, violentata. Quando è riuscita a liberarsi e a tornare a casa, l’ha trovata deserta, erano scappati tutti, e chissà quando e dove si riunirà ai familiari dispersi.
Francesca: A giudicare dal signorile vestitino a fiori ormai consunto non riesce difficile immaginarsi l’interno della casa che ha dovuto abbandonare. Di certo qualche fiore si trovava anche lì.
Edoardo: Insomma, tutto quello che fin qui c’è da capire si riassume in una formula semplice: negli ultimi cinque anni, la popolazione bisognosa è raddoppiata, gli aiuti dimezzati. O azzerati del tutto, come quelli ingenti che forniva USAID, agenzia umanitaria rasa al suolo dai provvedimenti del duo Trump-Musk, oppure che arrivano a singhiozzo dai donatori istituzionali, senza alcuna certezza che l’anno prossimo ci si potrà contare ancora (la Francia, per esempio, gira voce che nel 2026 non verserà un euro – proprio nel continente che per un secolo ha spolpato: e come garantire la continuità, poniamo, di un pronto soccorso se da gennaio di colpo ti ritroverai senza soldi per pagare medici e medicine?). Per fortuna la Comunità Europea attraverso il programma ECHO firma impegni triennali: almeno per un po’ quei fondi sono assicurati.
Ma forse iI taglio che fa più scalpore riguarda la lotta all’HIV, (qui è ancora un flagello) in cui gli Stati Uniti si distinguevano con un programma inaugurato, guarda un po’, da un presidente repubblicano, che tocca quasi rimpiangere, George W. Bush: oggi i farmaci che servono a contrastarlo (12 centesimi di dollaro al giorno per paziente) si vanno esaurendo. Non cito le proiezioni catastrofiche del numero di morti che saranno causati dalla policy trumpiana, perché fanno accapponare la pelle. Un genocidio dei poveri. Eppure, una politica estera degna di questo nome si dovrebbe fare non solo con le minacce militari o i dazi, ma anche col soft power degli aiuti umanitari. Altrimenti, lo scarso amore che più di mezzo mondo nutre verso gli USA si può star certi che non aumenterà.
Francesca: I tagli alle risorse mettono le agenzie umanitarie di fronte a un’alternativa secca: o riducono gli aiuti a tutti (invece di 8 dollari – al mese, intendiamoci – te ne do solo 3) oppure restringono la platea dei beneficiari seguendo criteri sempre più severi. La torta (chiamiamola così, anche se suona come uno scherzo o una bestemmia) si è fatta piccolissima…
Oltretutto, i locali che fino ad oggi erano stati molto accoglienti cominciano a mostrare segni di insofferenza, e ai nuovi arrivati tocca arrangiarsi per sopravvivere: le tensioni crescono con la diminuzione degli aiuti, pochi giorni fa una giovane rifugiata è stata uccisa dal proprietario di un campo per aver rubato un casco di banane.
Edoardo Uno tra i tanti dolorosi esempi in carne e ossa lo incontro al Nakivale Health Center, finanziato in buona misura dall’UNHCR, ai cui servizi accedono 80.000 rifugiati e 35.000 ugandesi. Già nel foglio coi dati che il direttore sanitario, Justin Okello, mi porge, noto che i numeri dello staff che ci lavorava sono stati sbarrati e riscritti a penna, con una diminuzione media del 30%. Lo stesso discorso vale per i medicinali di base, molti dei quali stanno andando in stock out. E dire che qui nascono dai 60 agli 80 bambini a settimana, le partorienti arrivano da un raggio di cento chilometri, persino dal confine con la Tanzania, e vengono assistiti (fin quando sarà possibile…) 885 pazienti che hanno contratto l’HIV.
L’esempio in carne e ossa si chiama Bonatira, trentacinque anni, scappata dal Ruanda nel 2001. Un volto severo e afflitto di Madonna dei Sette Dolori. Ha allattato la sua bambina, che ora ha un anno, fino ai cinque mesi, poi il latte le è mancato, la bambina ha iniziato a perdere peso e a essere sostenuta con bustine iperproteiche. Il suo grado di malnutrizione era moderato, ma quando a marzo, a causa dei tagli di cui sopra, le razioni di RUTF (Ready to Use Therapeutic Food) sono terminate, la bambina è deperita gravemente. Tre mesi praticamente senza mangiare, fino all’arrivo di una nuova fornitura…
Ora però, chiedo alla madre, la piccola è svezzata, può prendere cibo normale, no? Sì, ma la dieta in famiglia è poverissima, a base di fagioli e posho, una specie di porridge di farina di mais e acqua.
Meno proteine, meno difese immunitarie, anemia.
Ma il dettaglio più impressionante devo ancora scoprirlo. Il cooperante del Medical Team mi dice infatti che la donna si reca lì una volta a settimana, per il controllo di routine e per ritirare le bustine di RUTF: ma loro non hanno modo di verificare se lei effettivamente le dia tutte quante alla bambina. Sì, perché Bonatira a casa ha altri sei figli da sfamare. Altri sei figli! Forse è a loro che darà da mangiare una parte delle razioni, chi può saperlo? E il World Food Program (sempre a causa di quei cazzo di tagli…!) ha dovuto escluderla dal beneficio del piccolo aiuto economico che le forniva per acquistare cibo.
Tra marzo e luglio i casi del genere sono raddoppiati, o da moderati si sono fatti gravi. Se l’indice di malnutrizione considerato ancora accettabile è pari a 5, bene, nel 2024 la media era 2.8, oggi è 6.5.
E cosa vuol dire quando finiscono, poniamo, le scorte di lidocaina? (è accaduto anche questo, e ancora accadrà…). Vuol dire che i denti vengono curati senza anestesia, o per far prima li si cava, e amen.
Francesca: Le persone con cui volta a volta parliamo ci credono forse dei donatori – e noi, nel nostro piccolissimo privato, in effetti lo siamo. Ma dovrebbero essere i governi a muoversi. E allora, cosa ci facciamo qui? Possiamo solo riferire quello che abbiamo visto e ascoltato in questi giorni. «Allora ditelo, ditelo al mondo: l’Uganda ha bisogno di aiuto,» sussurra il dr. Okello, visibilmente commosso.
Ma allora, il famoso slogan “aiutiamoli a casa loro”?
Edoardo: l’Uganda è un paese profondamente religioso a maggioranza cristiana (cattolici e un buon numero di chiese protestanti), dove sono nati movimenti politici e addirittura di guerriglia ispirati da afflati religiosi (andatevi a leggere su Google, vi prego, le gesta di Alice Kauma, detta la “Strega del Nord”, posseduta dal demone Lakwena che le ispirò la fondazione del bellicoso “Holy Spirit Movement” – una specie di Giovanna d’Arco ugandese…). Qui sono venuti in visita pastorale Woityla nel 1982 e Francesco dieci anni fa, ma il primo in assoluto fu Paolo VI (il nostro albergo a Kampala era stato aperto in occasione del suo arrivo, trasmesso in mondovisione…).
Come già mi era accaduto, ad esempio, in Afghanistan, resto sbigottito dalla contraddizione di guerre feroci e crudelissime (in pratica, una sfilza di terrificanti rappresaglie) combattute in seno a popolazioni che a prima vista si direbbero dal carattere mite, cordiale, inoffensivo.
E mi sia concessa un’altra osservazione personale. Fin dalla sua scoperta, da ragazzo, ho considerato il sesso come un’avventura fondamentale, una pratica liberatoria, un modo unico di conoscenza, e infine uno dei pochi lati davvero interessanti della vita. Ma dopo aver ascoltato i racconti delle donne qui in Uganda, questa mia visione positiva già parecchio incrinata è andata definitivamente in pezzi, rivelando per intero il lato minaccioso del sesso, che lo trasforma in un’arma, in punizione, anzi, in persecuzione. Sia, ovviamente, quando viene estorto con la violenza da estranei o da nemici; ma persino più spesso all’interno del rapporto coniugale. Perché non riesco a immaginare che una donna povera che ha già partorito una caterva di figli abbia tutta questa voglia di essere amata fisicamente. Il coito, un incubo, una condanna. Prendiamo Denise, parrucchiera, arrivata qui dal Congo quando aveva due anni, ora rimasta sola con cinque figli dopo molte traversie e vari uomini. Quando le chiedo se vorrebbe ancora convivere con qualcuno che magari la ami e la aiuti, si stropiccia teatralmente le mani sbuffando: “I’ve finished with men.”
E a chiudere l’argomento, un po’ di controllo delle nascite no?
L’ultima nostra tappa è la scuola elementare di Kajako, sostenuta da Finn Church Aid, la chiesa evangelica finlandese, dal governo e dall’UNHCR. Anche questa è frequentata sia da rifugiati sia da bambini locali, in tutto 864. Gli insegnanti l’anno scorso erano 33, oggi solo 19, e ai bambini non possono più essere forniti quaderni, penne e libri di esercizi. Prima oltre 300 alunni ricevevano una minuscola borsa di studio, ora le borse sono meno della metà. Le famiglie vengono in visita ai convittori una volta ogni tre mesi. Il preside, Jerome Iga, pare l’uomo più affabile del mondo e non è affatto lagnoso nel mostrarmi tutte le magagne della scuola, i dormitori sovraffollati, le latrine oramai intasate, la recinzione costruita a metà e abbandonata, anzi, dimostra una apprezzabile e ben motivata fierezza. Resistere, resistere, resistere: ecco un posto dove quello slogan viene applicato per forza e sul serio. L’innovazione scolastica principale a Kajako è mescolare gli studenti disabili con gli altri, e insegnare a questi ultimi a prendersi cura dei primi. Me lo conferma un maestro completamente sdentato. Ma il colpo al cuore, o allo stomaco, me lo procura la cucina dove si preparano i pasti: è un bugigattolo affumicato largo forse due metri e mezzo. Il cuoco, curvo, sta travasando la pappa biancastra del posho dentro un mastello. Usa una scodella di plastica, pesca il posho da un calderone annerito e lo schiaffa nel mastello. Il preside lo assaggia dopo averne formato una pallina tra le dita: è il cibo comune a studenti e insegnanti, i quali dormono anche loro nella scuola, a quattro o cinque per stanza.
Francesca: Le sette ore di camionabile che ci separano dall’aeroporto di Entebbe sono un incubo. Parecchie moto hanno piantato sul serbatoio un grosso ombrello, aperto, e infatti viene giù un diluvio stagionale che ci accompagnerà per una cinquantina di chilometri, con visibilità zero e i campi intorno ridotti a risaie. Ancora lontani dall’arrivo, mentre inizia a fare scuro, passiamo con mille detour attraverso quella che pare un’autostrada in costruzione (da ingegneri cinesi? se ne scorge un paio aggirarsi e dare ordini in cima ai dossi di fango e graniglia). Dopodiché lungo il tracciato si sussegue almeno una cinquantina di bancarelle che vendono tutte la stessa merce, patate gialle e patate dolci rosse. Da come sono impilate in ordine sembra che non ne venga venduta nemmeno una e dubito lo sarà prima del buio. Dietro i banchi, donne immobili come statue. Sta piovendo, anche se meno forte, tra poco sarà notte. Intorno il nulla per chilometri. Dove andranno, quelle donne, dopo? E come porteranno via le loro patate?
Edoardo Al termine di questo ennesimo viaggio tra gente che l’eufemismo definisce “disagiata” (“disadvantaged”), stringo un patto con me stesso. Non mi lamenterò. Non mi lamenterò più. Mai più. Di niente.
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