La dinasty Berlusconi e quel “quid” che non si trova mai

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Ci risiamo, Pier Silvio, rampollo ormai maturo della Real Casa berlusconiana, dice che sì, si deve essere grati ad Antonio Tajani, ma bisogna cercare facce nuove. Lo fa, normalmente, a cadenze periodiche commentando i palinsesti, dove pullulano vecchie facce, di Mediaset, azienda paleozoica come la Rai in termini di innovazione e sperimentazioni. Ma tant’è, perché, per cognome e vanità, il giochetto serve ad alimentare le suggestioni di una sua discesa in campo (con quel cognome), anche se, come noto, l’uomo non è così adatto alla pugna e ai bagni di folla, fuori dal triangolo delle Bermuda tra Milano, Cologno e Portofino.

Non succede mai niente e non accadrà neanche questa volta, per tutta una serie di motivi. Perché Marina, vera potenziale erede per quid, non vuole. Perché il cognome Berlusconi non potrà mai essere il secondo di nessuno e, finché Giorgia Meloni viaggia attorno al 30 per cento, il tema della discesa in campo non si pone. Perché, soprattutto, prima della vanità c’è l’interesse e l’eterno imperativo che le aziende non possono mai, dicasi mai, entrare in rotta di collisione col governo. E infatti il rampollo ha stralodato la Meloni, insomma ci siamo capiti.

E allora, che ci racconta questa storia? Ci racconta tutto fuorché di un progetto politico, che pur meriterebbe di essere discusso. Ci vuole una seduta spiritica per trovare il famoso spirito liberale nell’attuale maggioranza di governo. L’elenco dei dossier del potenziale scontento, a voler discutere seriamente, sarebbe assai lungo: le imprese, il fisco, i diritti, la burocrazia, lo statalismo, il panpenalismo, la narrazione trumpiana eccetera eccetera. Ecco, la storia ci racconta, piuttosto, di psicologia e di un’indole, proprietaria per discendenza, più che di un disegno, per sé e per gli altri. Quella secondo cui l’erede di un mito che non concepiva altro quid all’infuori del suo, a sua volta non può concepire altro quid all’infuori del suo. Anche se il quid, a differenza del cognome, non si eredita.

I vecchi berlusconologici o berluscomanti, come si definivano i cronisti al seguito del Cavaliere, ricordano bene i delfini spiaggiati – chiedere ad Angelino Alfano – e le tante, periodiche, ricerche di «volti nuovi da mandare in tv». Ogni stagione ha avuto il suo memorabile casting. C’era la volta che Berlusconi non ce la faceva più a vedere Sandro Bondi e Fabrizio Cicchitto sullo schermo. Poi quella del «basta con Maurizio Gasparri». E, puntuale, partiva un casting, facendo trapelare la cosa sui giornali con un certo gusto sadico, perché mentre li scomunicava quelli votavano pure che Ruby era la nipote di Mubarak.

Ecco, morale della favola, Gasparri è ancora in tv e nel frattempo è arrivato Piersilvio a ri-porre la questione del «quid» e del rinnovamento. E intanto la baracca la regge Tajani, il meno berlusconiano per indole, il meno chiacchierato, tutto dedito al rammendo più che agli effetti speciali. Ogni volta si fa concavo e convesso, porta pazienza, e va avanti. Anche perché sa che, semmai, il giudizio da temere è quello della Cavaliera, più che di Pier Silvio. E chi lo avrebbe mai detto il giorno delle esequie del fondatore, che piano piano avrebbe superato Salvini. I maligni dicono che l’attuale Forza Italia assomiglia a una specie di nuova Udc, però di nuovi Berlusconi in carne ed ossa (non cognomi) in giro non se ne vedono. Ma, una volta tanto, un dibattito un po’ più seduttivo sul futuro dei cosiddetti moderati si può avere? Così, giusto per non scomodare sempre Freud.

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