Come ormai consueto per la Giornata internazionale della montagna, giovedì 11 dicembre il Forte di Bard ha ospitato un convegno dedicato ai ghiacci valdostani e alpini organizzato da Fondazione Montagna sicura, ente istituito nel 2002 dalla Regione Autonoma Valle d’Aosta e dedito a ricerca, formazione e divulgazione in diversi settori connessi all’ambiente montano, ghiacciai, neve e valanghe in primis. Ma l’evento di quest’anno – “Ghiacciai, permafrost, neve e acqua” – ha assunto particolare rilievo scientifico e comunicativo in chiusura del 2025 – Anno Internazionale della conservazione dei ghiacciai, con relatori di grande livello provenienti dai vari Paesi alpini.
Durante l’intensa sessione mattutina sono stati esplorati gli effetti dei cambiamenti climatici sulla criosfera delle Alpi (ovvero l’insieme del ghiaccio nelle sue varie forme: neve, valanghe, ghiacciai, permafrost), ma anche i nuovi ecosistemi che prendono vita laddove i ghiacciai si ritirano. Di tutta l’acqua allo stato solido presente nelle nostre montagne, proprio il permafrost è quella meno nota ai più. Un ghiaccio “fantasma”, potremmo dire, che permea le profondità di suoli e ammassi rocciosi che ad alta quota rimangono sotto zero per almeno due anni consecutivi e talora per secoli e millenni. In apertura ne ha parlato Christian Hauck (Università di Friburgo, Dipartimento di Geoscienze), trattando i metodi di studio del permafrost che hanno permesso di identificarne un riscaldamento dell’ordine di 0,4 °C nel decennio 2013-2022 sulle Alpi. Sembra poco, ma nelle zone in cui le temperature del substrato erano già vicine a 0 °C, questa variazione è già bastata a produrne lo scongelamento. Ed è proprio quando il permafrost si degrada che ci accorgiamo maggiormente della sua presenza e della sua importanza: in alta montagna i crolli rocciosi aumentano, rifugi e impianti di risalita perdono stabilità, e con le acque di fusione vengono talora rilasciati elementi tossici quali alluminio, nichel, zinco, manganese, a potenziale danno della qualità degli acquiferi a uso potabile.
Come avevo già descritto tre settimane fa, le temperature in aumento riducono quantità e durata dell’innevamento, soprattutto sotto i 2000 metri, e cambiano le caratteristiche della neve e delle valanghe, rendendo sempre più rappresentate quelle di neve bagnata. Ma, come ha spiegato Nicolas Heckert (Université Grenoble Alpes), a modificare l’attività valanghiva e i suoi impatti sono anche i cambiamenti del territorio e della società nelle regioni montuose: l’espansione dei boschi degli ultimi decenni contribuisce a ridurre l’innesco di slavine, e a essere coinvolti in incidenti sono per lo più sciatori e scialpinisti in alta quota, anziché abitanti in paesi e strade di fondovalle, un tempo i più bersagliati.
Guglielmina Diolaiuti (Università degli Studi di Milano, Dipartimento di Scienze e Politiche Ambientali) ha sottolineato il ruolo della ricerca scientifica e dei dati nella comprensione dei cambiamenti in corso nei ghiacciai di tutto il mondo, dalle Alpi al Karakorum e all’Himalaya, dove proprio il gruppo di glaciologia dell’ateneo milanese si è distinto nella realizzazione di nuovi inventari glaciologici che hanno permesso di quantificare meglio un patrimonio glaciale su cui ampie comunità umane si affidano per l’approvvigionamento di acqua.
Ancora a proposito di permafrost, il suo scongelamento è probabilmente tra i fattori che hanno contribuito all’eccezionale valanga di roccia e ghiaccio che lo scorso 28 maggio ha sepolto il villaggio svizzero di Blatten, nel Vallese. Daniel Farinotti (ETH – Politecnico Federale di Zurigo), tra i primi scienziati a giungere sul posto e ad analizzare questo evento (per ora) più unico che raro, ha spiegato come un insieme di elementi – monitoraggio a lungo termine, mezzi finanziari, conoscenza, esperienza, chiara definizione della catena decisionale, comunicazione, fiducia dei cittadini nelle istituzioni – ha permesso di evacuare preventivamente i trecento abitanti e scongiurare una strage. Un caso emblematico, in cui un’ottima gestione integrale del rischio ha funzionato come “da manuale”, ma potrebbe non andare sempre così bene… per questo occorre mantenere alta la vigilanza e migliorare ulteriormente la ricerca e le strategie di protezione civile. Di fronte a scenari di incremento di eventi estremi e dissesti di questo genere, le Alpi rimarranno vivibili, sì, ma a quale costo, si domanda Farinotti?
A proposito di rischi naturali, la scorsa estate ha fatto parlare di sé anche il nuovo lago glaciale del Grand Marchet, nel Parco Nazionale francese della Vanoise (Savoia), il cui sviluppo è avvenuto a partire dal 2020 a spese del ghiaccio in fusione e ritiro. Un suo possibile svuotamento improvviso avrebbe creato problemi alla località turistica di Pralognan-la-Vanoise, ragion per cui le autorità hanno pianificato lo svuotamento controllato dell’invaso (50.000 metri cubi d’acqua) tramite lo scavo di un canale di drenaggio, come già avvenuto in altre occasioni sulle Alpi (Ghiacciaio del Rocciamelone, tra Val Susa e Maurienne, nel 2005; Lac des Faverges, tra i cantoni di Berna e Vallese, nel 2019), con un costo di circa 450.000 euro, un’operazione descritta da Bruno Demolis dell’Office National des Forêts (ONF) che ha supervisionato i lavori.
Se i ghiacciai si ritirano e, per ben che vada, una loro parte non potrà ormai essere salvata, fondamentale è quanto meno conservare la memoria climatica che questi contengono, prima che scompaiano o che le informazioni chimico-fisiche del ghiaccio vengano alterate e dilavate dall’acqua di fusione. E’ questo l’obiettivo del programma internazionale “Ice Memory”, coordinato dal CNR – Istituto di Scienze Polari: prelevare carote di ghiaccio nelle varie catene montuose del mondo, dalle Alpi, alle Ande, al Caucaso, per metterle in salvo in un “ice sanctuary” presso la base Concordia in Antartide a temperature medie annue di -50 °C, e renderle così disponibili alle prossime generazioni di scienziati, anche quando i ghiacciai di origine non ci saranno più. Giulia Vitale (Università Ca’ Foscari, Venezia) e Agnese Petteni (CNR-ISP) hanno raccontato difficoltà e successi della spedizione dello scorso maggio sul Ghiacciaio di Corbassière, in Svizzera ma vicino al confine con la Valle d’Aosta: la presenza di acqua liquida in profondità, malgrado la quota di 4100 metri, è un segnale di quanto rapidamente il riscaldamento atmosferico minacci di corrompere le informazioni sul clima passato, ma almeno questo prezioso ghiaccio alpino con la sua memoria climatica è ora giunto in Antartide, in salvo, con la nave da ricerca “Laura Bassi”.
Quando i ghiacciai si ritirano, c’è comunque un “dopo”: laghi che si formano ed evolvono con rapidità, suoli che lentamente si sviluppano supportando nuove comunità vegetali, animali, microbiche, strutturando ecosistemi “post-glaciali”. Ne ha parlato Jean-Baptiste Bosson, glaciologo e attivista dell’associazione “Marge sauvage”. Tra i tanti spunti derivanti da un settore di ricerca emergente e di frontiera, un dato in particolare sorprende: i suoli in sviluppo nelle aree liberate dai ghiacci potranno, globalmente, assorbire parte del carbonio climalterante che emettiamo in atmosfera, come farebbe una foresta pluviale di 2.200-10.600 chilometri quadrati, a seconda degli scenari di deglaciazione.
Proprio per la loro centralità nel contesto ambientale di montagna e non solo, ai ghiacciai alpini e agli impatti dei cambiamenti climatici sul permafrost e sul ciclo idrologico verrà dedicato l’undicesimo “Report on the State of the Alps” (RSA11), nel quadro della Convenzione delle Alpi, a cui partecipa anche la stessa Fondazione Montagna Sicura, come ha descritto a fine mattinata Raffaele Rocco, Presidente del suo Comitato scientifico e neosindaco di Aosta.
I cambiamenti climatici stanno impattando anche le quote più elevate delle Alpi, oltre i 4000 metri? E, a tal proposito, come sta cambiando la calotta sommitale del Monte Bianco? A questa domanda intende rispondere un’attività di monitoraggio topografico e geofisico avviata quest’anno dalla stessa Fondazione in collaborazione con il Laboratoire Edytem (Université Savoie Mont Blanc/CNRS). I risultati delle misure, presentati nella sessione pomeridiana del convegno, indicano che il bianco tetto d’Europa culminava a 4807,3 metri durante la missione di ricerca del 30-31 maggio 2025, un valore irregolarmente mutevole in base a vento, nevicate e temporanei episodi di fusione, e la coltre di ghiaccio copre con uno spessore di una ventina di metri la sottostante base rocciosa a 4786 metri, che speriamo di non veder affiorare mai. La campagna 2025 costituisce un “punto zero” per proseguire con rilievi analoghi negli anni futuri.
E’ seguita la presentazione del rendiconto nivometrico della stagione nevosa 2024-25 in Valle d’Aosta a cura del Centro Funzionale della Regione Autonoma e di Fondazione Montagna sicura: un semestre complessivamente normale in termini di nevicate nel settore Ovest della regione, in generale povero di neve invece a bassa quota e soprattutto nel settore orientale, dove – almeno sopra i 2000 metri – la situazione si è poi riequilibrata solo con l’evento estremo di metà aprile, foriero della maggior parte delle valanghe registrate nella stagione. Infine, hanno chiuso l’evento una sessione poster dedicata alle ricerche su criosfera e neve, e la premiazione dei vincitori del concorso letterario e fotografico “Ghiaccio bollente – un ossimoro del cambiamento climatico”.
Da questa giornata è emerso, ancora una volta, come le implicazioni del riscaldamento globale e della deglaciazione per i territori alpini siano tante, complesse, spesso controintuitive: potremo affrontarle solo mettendo a sistema tutta la conoscenza scientifica e la capacità di gestione dei rischi che abbiamo maturato, e che ancora matureremo.
Disclaimer : This story is auto aggregated by a computer programme and has not been created or edited by DOWNTHENEWS. Publisher: lastampa.it





