L’imam Shahin libero: ecco come l’algoritmo dei social ha trasformato i togati in un nemico

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Può una decisione giuridica ordinaria diventare, nel giro di poche ore, un’accusa di tradimento dello Stato? Il caso della liberazione dell’imam di Torino, Mohamed Shahin, è emblematico di come alcune notizie, pubblicate in determinati momenti della vita del Paese, possano trasformarsi in un simbolo, ponendoci domande su come in Italia si sviluppa il dibattito pubblico digitale.


La liberazione

La notizia è semplice: la Corte d’Appello di Torino, accogliendo il ricorso degli avvocati, libera l’imam di Torino dal Cpr di Caltanissetta. Shahin è lì dentro da 21 giorni. Il ministero dell’Interno lo ha qualificato come pericoloso per la sicurezza nazionale. I giudici emettono una sentenza ordinaria sul provvedimento di restrizione, non entrano nel merito della colpevolezza. Ritengono però che un incensurato, con contatti isolati nel 2012 e 2018 con persone radicalizzate, non possa essere trattenuto solo perché ha espresso un’opinione non condivisibile sull’attacco agli israeliani del 7 ottobre 2023.


La reazione social

Meno di 24 ore dopo, però, il post su Facebook de La Stampa ha collezionato 5800 commenti, quello su Instagram 150. Il caso è finito al centro della tempesta perfetta: l’attentato contro gli ebrei di Sidney, a Bondi Beach, è avvenuto da poche ore; governo e magistrati da mesi si danno battaglia sulla separazione delle carriere; l’Italia sconta da anni una convivenza difficile tra italiani e migranti. Così, una banale decisione di diritto amministrativo, assume toni da guerra santa.


I commenti online

Abbiamo analizzato l’evolversi di questi commenti. Fatto 100 il totale, fino 16 online regna un certo equilibrio: il 13,1% è negativo, il 9,5% è neutrale, l’1,7% positivo. Dopo quell’ora, scatta qualcosa: indignazione e paura. I negativi esplodono al 39,7%, i neutrali si fermano al 30,1%, i positivi al 5,9%. Chi cerca di spiegare viene sommerso.


La narrazione pubblica

In serata il diritto è sparito dal dibattito, anche dell’imam quasi non si parla più. La decisione dei giudici è «una resa dello Stato», «un atto ostile verso i cittadini», una «sfida dei magistrati contro il volere del popolo». Le toghe sono ridotte a nemico interno. Non importa cosa ha fatto l’imam, non c’è più confine tra opinione, reato e pericolosità. S’invoca la riforma della giustizia, quando non direttamente punizioni ed epurazioni dei giudici coinvolti.


Dal panico morale alla polarizzazione

Com’è possibile? È difficile non leggere nelle migliaia di commenti tre schemi contemplati da alcuni studiosi. Quando il panico morale prende il sopravvento, secondo Stanley Cohen, i fatti vengono compressi: l’illegittimità di un trattenimento diventa prima assoluzione e quindi protezione dei delinquenti. Il capro espiatorio diventano i magistrati secondo quel populismo istituzionale teorizzato da Jan Werner Müller per cui ogni potere di controllo viene letto come un tradimento della volontà del popolo. L’algoritmo dei social, che Cass Sunstein definiva “camere di eco”, fa il resto: spinge la polarizzazione, premia il linguaggio estremo, sopprime il dibattito.


Dalla sentenza al panico collettivo

Quello che i numeri de La Stampa catturano non è una valutazione della sentenza. È il passaggio dal pensiero al panico. La domanda non è più: il giudice ha sbagliato? Ma: il sistema ci tradisce? E quando la domanda cambia, la risposta è già scritta.

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