Meno vertenze sulle pensioni, ma come capire se l’assegno è giusto: gli errori più comuni

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Si riduce il contenzioso in sede Inps. Stando ai dati del Rendiconto generale dell’anno 2024, il volume complessivo, davanti a tutte le diverse giurisdizioni, è passato da 368.786 giudizi giacenti alla fine del 2023 a 345.035 a fine 2024. La ripartizione per materia vede sempre in testa le controversie di carattere contributivo e, a seguire, l’invalidità civile.
Quanto alle dispute in materia di “prestazioni pensionistiche”, si contavano 16.521 giacenze alla fine del 2023 a fronte di 14.375 giudizi ordinari pendenti al 31 dicembre dell’anno scorso: il 9,8% del numero totale. A livello regionale, il contenzioso giudiziario ordinario in materia pensionistica, per rivendicazioni varie, vede in testa il Lazio: da sola, Roma Capitale conta 2.885 giudizi pendenti al 31 dicembre 2024. Seguono, nella classifica delle prime cinque, la Sicilia (3.762), la Puglia (3.079), la Campania (Napoli se ne intesta 1.821) e il Piemonte con 531 pendenze (dati dei Rendiconti sociali regionali Civ dell’Inps per il 2024). Aumentano i casi risolti in via amministrativa e con istanza di autotutela. «L’istituto nazionale previdenziale è certamente più dialogante rispetto al passato», racconta Bruno Borin, responsabile del Business legal service del network Consulcesi che segue diversi lavoratori, in particolare del pubblico impiego. «Ma sarebbe utile mettere in pista altre soluzioni alternative, come l’istituto di mediazione e l’arbitrato: è un via accessibile come costi e in altri settori funziona. Talvolta, il contenzioso sarebbe evitabile ma si rende necessario per recuperare importi di pensione dovuti».
L’esito dei controlli effettuati su 2.036 assegni pensionistici dai consulenti previdenziali di Consulcesi & Partners nei primi nove mesi del 2025, infatti, accende una spia. Nel dettaglio, in ben 1.072 trattamenti verificati è stata accertata la presenza di una irregolarità. In pratica, metà degli assegni pensionistici erogati presi in esame contengono un importo erroneo. Di norma, al ribasso per il pensionato. Si tratta, certo, di numeri esigui rispetto alla mole dei circa 18 milioni di pensioni oggi in essere. Ma il trend dei riscontri è tale da meritare attenzione. Anche perché gli errori, spesso, partono a monte mentre ancora si lavora, talora anche per banali errori di compilazione. Vediamo quali sono i casi di sviste più comuni, come capire se esistono nel proprio caso e cosa fare.

L’errata retribuzione finale
In testa alla classifica delle inesattezze riscontrate dagli esperti del network legale fra gennaio e settembre di quest’anno, c’è l’ultima retribuzione percepita dal lavoratore. In un quarto delle pensioni esaminate, infatti, il salario riportato nell’estratto conto contributivo al momento della cessazione del rapporto di lavoro non era corretto. Come si spiega? Spesso, questo è dovuto alle comunicazioni parziali, incomplete o sbagliate del datore di lavoro. Oppure è frutto di imprecisioni nel trasferimento all’ente previdenziale. È bene, dunque, controllare sempre la cifra al momento del pensionamento.

Gli altri errori più comuni
Massima attenzione anche al part-time e alle “assenze” dal lavoro. Come, per esempio, le aspettative non retribuite (il cosiddetto “sabbatico” può arrivare fino a una durata massima di due anni) e i congedi. Quest’ultimi, in particolare, sono di vario tipo e possono alternarsi nel corso della carriera lavorativa di una persona. Fra le assenze retribuite riconosciute nei contratti collettivi si trovano i congedi matrimoniali, quelli parentali per i figli, quelli straordinari per motivi di studio o per sostenere esami e concorsi, i permessi per lutto familiare o grave infermità.
Quanto alle assenze non retribuite, a richiesta del lavoratore, possono essere concesse per motivi personali o familiari, per completare percorsi di studio o formazione sindacale, per attività di volontariato o cariche elettive. Ma, qui, la gestione è ancora più complessa: la “trattenuta per mancanza di prestazione” sulla busta paga, corrispondente al numero di ore o giorni non lavorati che il datore di lavoro è autorizzato a non versare, non concorre alla maturazione delle ferie ma ha parziali ricadute su Tfr, tredicesima e accantonamenti. Ecco, dunque, che l’imprecisione è dietro l’angolo: la “cattiva” registrazione di tali eventi porta all’errata valorizzazione di questi periodi e produce il 20% degli errori di importo di pensione.
Un altro 18% di sbagli è legato al mancato riconoscimento dei contributi durante i periodi di maternità, ricorso ad ammortizzatori sociali, servizio militare. Si tratta di un caso tipico nelle carriere lavorative lunghe oppure discontinue, con contratti di solidarietà o messa in Cigs per stati di crisi aziendali o per Naspi a seguito della perdita del posto di lavoro. In genere, i cosiddetti contributi “figurativi” non sono riportati bene e la non accuratezza si traduce in minori accrediti sulla posizione contributiva del lavoratore, sia in termini di versamenti complessivi sia di settimane lavorate.

Il sistema pensionistico e le troppe norme
All’origine di molte imprecisioni, poi, ci sono le numerose riforme previdenziali che si sono succedute negli anni e i variegati canali per andare in pensione o per un’uscita anticipata. Le verifiche hanno portato alla luce che, nel 15% dei trattamenti pensionistici, l’importo era sbagliato per l’inesattezza del sistema pensionistico di riferimento. In questo caso, è l’istituto previdenziale che applica male le regole di transizione fra il calcolo retributivo, misto o contributivo (soprattutto di questi ultimi due), portando a un assegno impreciso. «Le riforme sono state tante: ogni volta cambiano le regole», spiega Bruno Borin, responsabile del Business legal service del network Consulcesi. «Spesso, coesistono metodi di calcolo molto diversi fra loro e il discorso attiene anche le interpretazioni delle norme. Alla fine, si genera confusione».
Ma contribuiscono anche altri fattori. Il primo riguarda i “rientri” di casse previdenziali di categoria nell’Inps (come è avvenuto con Enpam per i medici, Enpals per i lavoratori dello spettacolo, Inpdap per i dipendenti pubblici, Inpgi per i giornalisti). Questi scontano una “eredità” delle precedenti gestioni, che prevedevano trattamenti previdenziali diversi prima di confluire nell’istituto previdenziale nazionale. Dunque, assorbire le posizioni contributive del passato e allinearle alla gestione Inps presenta più di un’incognita (perfino dal punto di vista tecnico nel “dialogo” delle piattaforme informatiche). L’altra variabile è la coesistenza di Inps con varie casse professionali e l’affiancamento fra gestioni principali (lavoratori dipendenti) e separate (autonomi). Al netto della ricongiunzione, che trasferisce i contributi in un’unica gestione ma a titolo oneroso, cumulo e totalizzazione consentono di “riunire” i contributi versati in diversi enti previdenziali ma a prezzo di una maggiore complessità. Quindi, se nella vita professionale si alternano periodi da lavoro dipendente e da libero professionista, il calcolo per l’assegno pensionistico finale si presenta articolato.

Mancate rivalutazioni ed errori di calcolo
Fra gli imprevisti ricorrenti, ci sono anche le mancate rivalutazioni degli importi di pensione in base alle norme vigenti. Nel 12% di casi, infatti, i conteggi non sono aggiornati alla cosiddetta “perequazione”, ovvero manca la rivalutazione automatica degli assegni ai fini del potere d’acquisto (in pratica, l’adeguamento Istat all’inflazione). Un caso eclatante si verificò nel 2015, quando il “bonus Poletti” per integrare “una tantum” gli assegni pensionistici (la cui rivalutazione era stata “bloccata” nel periodo precedente) subì errori di calcolo. Meno frequenti ma più pesanti in termini di “ammanco” sulla pensione, infine, sono gli errori di calcolo dei coefficienti di trasformazione o delle basi di calcolo reddituali. Nel primo caso, si verifica un’erronea applicazione dei coefficienti di trasformazione del montante contributivo accantonato. Coefficienti che, come noto, sono aggiornati ogni biennio: quindi, la rendita pensionistica è elaborata in difetto. Nel secondo caso, invece, sono i redditi annuali e i rispettivi massimali a subire applicazioni sbagliate. E questo coinvolge anche le pensioni di reversibilità del coniuge eventualmente deceduto perché calcolate anche sul reddito del superstite.

Gli importi: da pochi decimali a 300 euro al mese
Il risultato di queste “sviste” può costare molto caro alle tasche dei pensionati. Stando ai ricalcoli delle domande prese in esame, la perdita può andare da poche decine di euro fino a 200 o 300 euro ogni mese. Nei casi più gravi, si può arrivare a decine di migliaia di euro. Come è accaduto nel caso di un medico che, fra arretrati di assegno pensionistico e Tfr non versato correttamente, ha recuperato oltre 70 mila euro di risarcimento.

Come capire se ci sono errori
Il primo suggerimento utile è di valutare la propria situazione professionale. Chi ha cambiato più volte impiego, ha versato in casse previdenziali diverse, ha lavorato per aziende di piccole dimensioni, ha alternato periodi da dipendente e autonomo con partita Iva o ha “buchi” contributivi, è più esposto al rischio di “errori”. Lo stesso vale per chi ha avuto periodi in maternità e usufruito di congedi, è passato da tempo pieno a parziale, ha vissuto fasi di Cigs e solidarietà, ha “recuperato” periodi di lavoro all’estero oppure ha coperto periodi contributivi con versamenti volontari o con riscatto laurea. Il consiglio, in tutti questi casi, è di fare periodici controlli dell’estratto contributivo durante l’arco lavorativo, così da accorgersi in tempo di eventuali lacune o mancati agganci di contributi e chiedere rapide correzioni, mediante un’istanza di autotutela con l’ente previdenziale.
Al momento del pensionamento, inoltre, è bene verificare i propri dati anagrafici (spesso presentano errori), la retribuzione annua dichiarata e la completezza dell’estratto previdenziale, non dando mai per scontata l’esattezza. Una perizia di verifica può evidenziare scostamenti di poco conto ma anche differenze che vale la pena recuperare.

Risarcimenti a favore del lavoratore: le sentenze
Una recente sentenza di Cassazione del 2024 ha chiarito che, per il raggiungimento dell’anzianità contributiva ai fini del pensionamento (anche anticipato), valgono i cosiddetti “figurativi”. Gli Ermellini hanno precisato, infatti, che la contribuzione figurativa si sostituisce alla obbligatoria dello svolgimento del rapporto di lavoro, se il lavoratore è costretto a interrompere o a sospendere l’attività per cause non imputabili a lui.
In caso di errore Inps che ha comportato un importo pensionistico inferiore, il pensionato ha diritto a un risarcimento del danno subito. Ma una sentenza della Cassazione del 2019 ha stabilito che, se vi è un concorso di colpa del pensionato nell’evento dannoso, il risarcimento sarà ridotto proporzionalmente. Quindi, è bene attivarsi in modo tempestivo – anche solo con una richiesta o un’interruzione di prescrizione – perché l’eventuale “inerzia” può essere un boomerang per esercitare il proprio diritto.

Differenze in eccesso: restituzione solo per dolo
Va considerato anche il caso opposto. Ovvero quando l’assegno comporta un importo in eccesso rispetto al maturato. Ebbene, l’Inps è legittimato a ricalcolare la pensione in presenza di errori, ma non può richiedere la restituzione delle somme corrisposte in più tranne quando il pensionato ha agito in modo intenzionale e deliberato per ottenere indebitamente il beneficio. La sezione Lavoro della Cassazione, nel 2017, ha precisato che, in caso di errore con pensione superiore alla spettante, l’Inps può rettificarla in ogni momento e per errori di qualsiasi natura, ma non può recuperare somme già corrisposte, salvo dolo del pensionato.
Questo si verifica quando il reddito del pensionato ha subito una variazione nel suo importo e costui non l’ha comunicato, né all’Inps, né all’Agenzia delle Entrate. L’istituto previdenziale può richiedere la restituzione dell’eccesso corrisposto ma entro l’anno precedente a quello in cui ne è venuto a conoscenza. Se, invece, l’errore è stato commesso in sede di attribuzione, erogazione o riliquidazione della prestazione, l’Inps può procedere alla ripetizione dell’indebito (ossia, al recupero delle somme erogate e non dovute) solo per dolo dell’interessato. L’azione di ripetizione dell’indebito è soggetta al termine di prescrizione decennale.

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