«Il nostro sistema previdenziale rischia il collasso» sostiene Pietro Ichino, che da esperto giuslavorista spiega che per ristabilire un equilibrio occorre aumentare l’occupazione, puntare di più sulle politiche attive sul lavoro per ridurre la scarsa partecipazione femminile e l’abnorme disoccupazione giovanile.
Professor Ichino, il governo ha deciso di ritirare tutte le ultime proposte in materia di pensioni, l’allungamento delle finestre d’uscita e l’intervento sul riscatto delle lauree. Lei di queste misure che hanno suscitato tante polemiche che ne pensa?
«L’impressione è che all’interno di governo e maggioranza, come del resto accade in seno all’opposizione, convivano intendimenti opposti in materia pensionistica».
Quali orientamenti?
«Si va da quello enunciato originariamente dal ministro Salvini di “rottamare la riforma Fornero” a quello diametralmente opposto del ministro Giorgetti, che anima queste ultime proposte. Mi sembra però che né l’uno né l’altro affrontino il problema cruciale con la necessaria consapevolezza della sua entità e deteriminazione a risolverlo alla radice».
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E qual è il problema che non viene affrontato?
«L’equilibrio attuariale del sistema pensionistico italiano, raggiunto tredici anni fa in una situazione di gravissima emergenza fa con la riforma Fornero, si basava sul presupposto che rimanesse invariata la platea dei lavoratori attivi, i cui contributi finanziano le rendite pensionistiche. Ma questa platea, in realtà, per motivi demografici perde ogni anno circa 150.000 lavoratori attivi: ciò che implica una riduzione della platea stessa del dieci per cento entro il prossimo quindicennio. E nel frattempo l’attesa media di vita continua a crescere».
Sta dicendo che il nostro sistema previdenziale è destinato a un nuovo collasso?
«Temo proprio di sì, se non adottiamo le misure indispensabili per ripristinare l’equilibrio attuariale».


Quali possono essere queste misure?
«Quelli che abbiamo sempre considerato come gravi difetti del nostro mercato del lavoro, cioè la scarsa partecipazione femminile alle forze di lavoro e il tasso abnorme di disoccupazione giovanile, possono essere oggi motivi di speranza: si tratta di due grandi “serbatoi” ai quali possiamo attingere per aumentare le forze di lavoro, neutralizzando il calo demografico».
Una parola, bella sfida.
«Certo, questo implicherebbe un grande balzo in avanti nella qualità e quantità delle nostre politiche attive del lavoro. Ma tra i pochi privilegi che ci derivano dall’essere un Paese arretrato c’è quello di poter copiare parassitariamente quello che oltralpe hanno fatto con decenni di anticipo rispetto a noi i Paesi più avanzati su questo terreno. Un’altra grande riserva di lavoratori attivi a cui attingere, poi, sarebbe costituita dall’immigrazione, se sapessimo gestirla in modo efficiente».
Qualcuno le obietterà che, se il lavoro non c’è, le politiche attive non possono fare miracoli.
«Oggi questa obiezione non sta in piedi: in Italia, in tutti i settori e in tutte le fasce professionali, le imprese faticano molto a trovare il personale che cercano. Attivare i percorsi necessari per portare donne, giovani e immigrati là dove il loro lavoro potrebbe essere valorizzato costerebbe molto meno del flusso di reddito e di gettito fiscale che ne nascerebbe».
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Guardiamo al futuro: salari bassi oggi, pensioni misere domani. Come si rompe questo circolo vizioso?
«Saluto positivamente la legge-delega n. 143/2025 (il cosiddetto “Collegato lavoro”), a norma della quale, dove la contrattazione collettiva non funziona a dovere o è in ritardo, l’autorità statale provvede in via sussidiaria a fissare uno standard retributivo minimo: questa misura, se applicata bene, avrà sicuramente un effetto positivo nella fascia professionale più bassa. È molto sorprendente che l’opposizione non si sia accorta che il governo con questa norma le stava dando ragione e abbia votato contro. Però le retribuzioni medie in Italia non potranno comunque crescere di molto finché non ricomincerà a crescere la produttività media del lavoro».
Come può tornare a crescere?
«Occorrerebbe favorire il più possibile la migrazione delle persone che lavorano dalle imprese più deboli o addirittura decotte verso quelle più produttive, che cercano manodopera a tutti i livelli senza trovarla. Senonché, proprio per l’arretratezza del nostro sistema dei servizi al mercato del lavoro, noi facciamo l’esatto contrario: incoraggiamo le persone a stare attaccate con le unghie e coi denti al loro posto, anche quando altre aziende potrebbero valorizzare molto meglio il loro lavoro».
Basterà aumentare il livello delle retribuzioni per risolvere il problema delle pensioni di chi ha 30 o 40 anni oggi?
«Sicuramente l’aumento delle retribuzioni medie porterà un aumento delle pensioni future. Ma occorre anche smettere di occuparsi – come la politica oggi tende a fare – soltanto dei pensionati di oggi aumentando il debito pubblico che grava sulle spalle di chi oggi ha 30 o 40 anni. È incredibile l’ottusità della nostra cultura politica, su questa materia. Per fortuna i giovani tedeschi hanno incominciato a denunciare questa ingiustizia: la speranza è che incomincino a farlo anche i giovani italiani».
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