Il solstizio d’inverno — la notte più lunga e buia dell’anno — ci invita a guardarci dentro, proprio quando l’oscurità ha inghiottito il sole e ne ha assunto il pieno dominio. Eppure, nelle culture antiche questo stesso momento veniva celebrato come il trionfo della luce sulle tenebre, come il punto da cui tutto ricomincia.
Secondo lo psicoanalista svizzero Carl Gustav Jung, nei miti, nelle religioni e nei rituali solstiziali, si apprezzano figure solari che muoiono e rinascono, di madri oscure che custodiscono il seme della luce, di eroi che affrontano la discesa. Jung sottolineava che «Il mito della notte invernale è sempre un mito di incubazione, un’attesa della trasformazione» e che il solstizio d’inverno non è solo un evento astronomico, ma una soglia simbolica che segna il punto più profondo della discesa nel buio e, simultaneamente, l’inizio della risalita verso la luce.
Jung sosteneva che «ogni trasformazione psichica avviene passando attraverso l’oscurità», e vedeva il giorno più breve dell’anno come una metafora del processo di individuazione, in cui la psiche attraversa zone d’ombra necessarie affinché possa emergere una nuova configurazione di senso. In particolare, Jung considerava la nigredo — la fase più oscura dell’opera alchemica — una metafora essenziale del lavoro interiore: «Il nero è l’inizio; è la notte in cui l’anima deve discendere». Il solstizio d’inverno incarna esattamente questa condizione: un arresto, un momento di massima contrazione psichica che prelude alla rinascita.


Dal punto di vista psicodinamico, il solstizio d’inverno rappresenta un processo di interiorizzazione radicale. Quando la luce esterna si contrae, la coscienza è costretta a volgere lo sguardo all’interno. Jung afferma che «l’inconscio si intensifica quando la coscienza retrocede», e proprio nei periodi di oscurità (così come in quelli di crisi) psicologica emergono simboli, sogni e immagini che guidano la trasformazione. La “notte” non è quindi solo assenza di luce, ma spazio di incubazione, in cui «le immagini dell’inconscio maturano lentamente come semi nella terra».
Il solstizio d’inverno rappresenta una dialettica naturale tra opposti: luce e buio, coscienza e inconscio, morte e rinascita, introversione ed estroversione (l’inverno è, per antonomasia, un tempo fortemente introverso), e, naturalmente, anche tra logos ed eros. La sua forza archetipica deriva dal fatto che «la vita psichica si sviluppa sempre nel ritmo degli opposti». L’oscurità, per quanto temuta, contiene il germe della trasformazione. Infatti, Jung sostiene che «nel cuore dell’oscurità cresce la luce».
Da un punto di vista clinico, l’immagine del solstizio invita a rivalutare i momenti di ritiro, di stagnazione e di apparente immobilità nei processi terapeutici. Per questo Jung sottolinea che «i processi creativi dell’anima si svolgono nel silenzio dell’inconscio». Sono tempi in cui qualcosa matura nell’invisibile: l’intuizione di un nuovo orientamento, il germoglio di un Sé più autentico. Per Jung «non è l’Io che produce la trasformazione, ma ciò che sorge dal profondo». Ed è per questo – a mio modo di vedere – che i buoni propositi per l’anno nuovo falliscono: provengono dall’Io, non dal profondo.


Il solstizio d’inverno è dunque un simbolo universale di rigenerazione: ricorda che ogni difficoltà, ogni oscurità, porta con sé il seme della luce. In termini junghiani, è la soglia in cui la psiche riconosce che la trasformazione non è lineare, ma ciclica, e che «l’inconscio segue il corso delle stagioni dell’anima» – anche se oggigiorno, nel mondo lineare del presente assoluto, sono sempre meno le persone consapevoli di avere un’anima — e che questa richiede cura e coltivazione). E, come sottolinea il filosofo spagnolo Antonio de Diego, «la modernità ha lasciato conseguenze molto difficili da sanare: un mondo in evidente collasso ecologico, rituali ridotti a meri esercizi estetici, e un essere umano in rovina».
Il solstizio può evocare momenti di tristezza, ma, se riconosciuta come feconda, questa oscurità ci aiuta a adattarci al silenzio dei momenti lenti, quasi immobili e frustranti, alle perdite inevitabili, proprio come la foresta che lascia cadere il fogliame senza lamento. Ai momenti in cui la vita sembra priva di senso, senza ritmo.


Nel punto di massima oscurità, la luce rinasce e ogni nuovo giorno si allunga un po’. Infatti, qualunque sia la nostra provenienza, l’ascolto della luce è inscritto nella psiche: siamo tutti parte di questo movimento verso la vita che rinasce. Tuttavia, oggi, in un’epoca in cui il logos domina sull’éros, è sempre più difficile sostare in questa condizione di carenza e di scarsità.
Troppo spesso il periodo inaugurato dal solstizio è segnato da abbuffate e veglie fino a tardi: un tempo ingordo. Il buio, invece, ci impone rispetto. Forse, se riuscissimo a sconnetterci e restare soli nel buio, l’anno che verrà sarà più luminoso, meno ansioso e meno pieno di richieste materiali prive di senso. A questo proposito, lo psicoanalista junghiano John Beebe, interpellato da Specchio, osserva: «Che cos’è, in ognuno di noi, che proprio in questo periodo dell’anno desidera fermarsi, dormire, e cancellare la memoria agitando le nostre gambe inquiete? Abbiamo forse paura di non aver fatto abbastanza quando avevamo la luce del giorno, o che ci sarà presto chiesto di più, quando questa luce ritornerà? No, credo di no. È piuttosto che le nostre particelle più luminose non hanno nulla da riflettere quando la luce del sole non è sufficiente, e allora non possiamo far altro che sprofondare nel torpore, senza neppure aspettarci il regolare ritorno di ciò che illumina i nostri sogni. Desolati, in questo momento dell’anno attendiamo come senza sogni, scartando quei messaggi urgenti che riescono a raggiungerci dall’interno, e che ci chiedono di affidare alla memoria tutto ciò che abbiamo già visto. Un tempo completamente nuovo sta arrivando, e dobbiamo placare la nostra smania di essere aggiornati su tutto prima che arrivi, se vogliamo avere anche solo una possibilità di accoglierlo».


Proviamo, nei limiti imposti dalle relazioni sociali e dai nostri obblighi, a staccarci dalla tecnologia. Proviamo a restare soli, davvero soli, per qualche ora, sottraendoci al flusso dei messaggi quotidiani che ci vengono imposti. Proviamo a spegnere telefono, televisione e radio. Proviamo a passeggiare senza musica o podcast. Proviamo a restare soli con i messaggi che la nostra anima attende di rivelarci. Solo allora potremo sentirci meno soli e più in contatto con ciò che davvero conta. Proviamoci, almeno un giorno.
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