«Investire sui congedi di paternità, sull’equilibrio uomo-donna e sugli asili nido», solo così si potrà invertire la curva. Non è una ricetta ma la rotta suggerita da Tito Boeri. A poche ore dall’ultimo rapporto Istat sulle nascite, diffuso ieri, l’economista riflette sul calo demografico e commenta le scelte del governo: «I bonus una tantum non riescono a incidere sulla natalità – dice – perché non aiutano a programmare una famiglia».
L’Istat certifica un crollo dei nuovi nati del 2,6% nel 2024 e prospetta che nel 2025 il tasso di fecondità si fermerà al minimo storico.
«È un dato che riporta alla realtà. È un tema sottovalutato, eppure molto rilevante per tutti noi. Il calo delle nascite ha implicazioni su crescita economica, benessere, finanziamento dei sistemi di protezione sociale».
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Dove si è inceppato il meccanismo?
«Credo incida un insieme di fattori. Da una parte c’è il fatto che gli oneri di cura gravano in grandissima parte sulle donne, che giustamente hanno aspirazioni professionali, dall’altro pesano le difficoltà dei giovani nel crearsi reddito e trovare casa. Rimangono con i genitori a lungo prima di potersi creare una famiglia. Sono condizioni che ritardano l’età in cui si fa il primogenito».
Diminuiscono sia i primi figli che quelli successivi.
«Una volta che si rimanda, anche se l’intenzione originaria era di avere due figli, i piani vengono modificati perché è tardi per avere il secondo. I Paesi che hanno tassi di fecondità più alti sono quelli in cui ci sono più donne che lavorano. Ma per rendere possibile questo servono investimenti in politiche di conciliazione e, per esempio, negli asili nido».
Il Pnrr avrebbe dovuto rappresentare una svolta, soprattutto per asili nido e infrastrutture sociali.
«Purtroppo così non è stato. Il Pnrr ha inizialmente finanziato solo le scuole d’infanzia, già molto frequentate in Italia. Bisognerebbe agire invece sugli asili nido, che riguardano i bambini da zero a tre anni. Adesso si sta correggendo la rotta, ma mi sembra che il numero di nuovi asili nido creati sia ancora molto basso, troppo basso. In molte parti del Paese non ci sono strutture adeguate».
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Cosa pensa delle misure messe in campo dal governo in tema di natalità?
«Mi sembra che questo governo abbia ancora una visione retrograda del problema. Continua a investire sulla cura informale, soprattutto da parte delle madri, perché ha reso più generosi i congedi di parentela anziché potenziare i congedi di paternità. Invece bisogna che i padri si responsabilizzino di più all’interno delle famiglie sulla cura dei figli. Penso che la strada maestra sia quella di una maggiore e più equa condivisione delle responsabilità nella famiglia».
Nel 2023 il ministro Giancarlo Giorgetti pensava a esenzioni fiscali per le famiglie con due figli. Oggi l’approccio è quello dei bonus, pensa funzioni?
«In Italia abbiamo una tradizione per cui ogni governo inventa il suo bonus, abolisce quello precedente, cambia la legislazione in materia. Questa incertezza danneggia le politiche di natalità. Quando si deve decidere di mettere al mondo un bambino occorre avere orizzonti lunghi davanti. Sarebbe più opportuno investire in strutture che siano in grado di ridurre i costi complessivi per le famiglie».
Oggi a Torino parlerà del ruolo dei padri al festival Women & The City. Circa 10 anni fa, da presidente dell’Inps, lei ha proposto il congedo di paternità obbligatorio di 15 giorni. Sarebbe ancora una soluzione?
«In Spagna ammonta a un mese, noi siamo ancora a 10 giorni. È una misura importante anche dal punto di vista culturale, perché spinge i padri a essere più responsabilizzati nella cura dei figli. Poi c’è anche un aspetto legato al modo con cui i datori di lavoro si rapportano alle persone che devono assumere. In genere, specie nelle piccole imprese, si preferisce assumere uomini piuttosto che donne in età fertile, nel timore che le lavoratrici prenderanno congedi di maternità. Se anche i padri prendono i congedi, questa discriminazione nei confronti delle donne potrebbe fortemente ridursi».
Il reddito femminile spesso si riduce dopo la nascita del primo figlio, questo incide sulle politiche di natalità?
«È la cosiddetta child penalty, stimata in diversi Paesi e che esiste solo per le donne. Parlerò anche di questo a Torino. Gli uomini, quando hanno figli, non hanno alcuna interruzione di carriera o perdita di reddito. Mentre per le donne c’è una penalità molto forte che rimane nel corso del tempo. Se ci fosse una più equa divisione degli oneri per la cura dei figli i costi per la madre sarebbero molto più contenuti. Costi così importanti come quelli che si accumulano quando nascono i figli in Italia sono difficilmente recuperabili e sono penalità molto forti per donne che hanno giustamente aspirazioni anche al di là della vita familiare».
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Quale impatto avrà la combinazione di meno nascite e invecchiamento della popolazione sul nostro modello sociale ed economico?
«Avere meno giovani che entrano nel mercato del lavoro, oltre che meno innovazione, vuol dire difficoltà a finanziare le spese sanitarie, lo Stato sociale. Anche con questa manovra, si continua a cercare di abbassare l’età pensionistica, ma se vogliamo tenere in piedi il nostro sistema pensionistico, dobbiamo cercare in tutti i modi di aumentare i tassi di fecondità nel nostro Paese».
Questa curva demografica avrà un’inversione di rotta?
«Ci sono dei processi cumulativi, perché diminuendo le donne in età fertile, anche se dovesse aumentare il numero di figli per donna, noi avremmo comunque un problema. E quindi il declino demografico si nutre e si avvita su se stesso. Si può cercare però in parte di contenere il calo, e questo, sì, dovremmo farlo».
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